Le vicende finanziarie e, più in generale, economiche possono essere così sintetizzate: 1) i mercati delle azioni hanno delle quotazioni più o meno intorno alla media storica, mentre quelli delle obbligazioni hanno dei rendimenti inferiori alla media storica. 2) le economie dette reali crescono, ma meno che in passato, e con quote inferiori di occupati – da non confondere con il tasso di disoccupazione che misura solo quelli che cercano attivamente lavoro, ma non quelli che hanno rinunciato - ed una maggiore diseguaglianza non solo dei redditi e delle ricchezze, ma anche di mobilità sociale. 3) si hanno in Europa e negli Stati Uniti – già al governo, oppure con un peso crescente all'opposizione - le forze populiste, intanto che nei Paesi emergenti maggiori – in Cina, Russia, Turchia - si rafforzano le autocrazie. Nientemeno si tratta di capire come queste variabili - ed altre importanti che poi emergeranno, ma che al momento non si conoscono – possano combinarsi.

Un esempio di variabili che poi emergono, ma che al momento non si vedevano, erano gli enormi debiti in dollari delle banche europee ai tempi della crisi del 2008. Debiti europei che senza l'impegno della Banca Centrale degli Stati Uniti a co-gestirli avrebbero aggravato la già grave crisi. Per inciso, la lettura della crisi di dieci anni fa come una crisi in origine statunitense che poi si è diffusa negli altri Paesi “innocenti” andrebbe, proprio per questa ragione, rivista, almeno in parte (Adam Tooze, Crashed, 2018). Oggi si ha una situazione non dissimile con il cospicuo debito in dollari del settore privato cinese (Adam Tooze, Crashed, 2018). Conosciamo così un'importante variabile che all'epoca della crisi non era emersa, ma non è escluso – si dovrebbe dire “per definizione” - che ve ne siano altre che ignoriamo.

Siamo messi meglio di dieci anni fa? All'epoca della crisi del 2008 si aveva una maggiore collaborazione fra le istituzioni politiche rispetto al clima oggi prevalente (The Economist, In fighting next recession, politics will be crucial, ottobre 2018). Inoltre, i tassi di interesse erano molto più alti - intorno al 5% negli Stati Uniti e nell'Euro-zona, e i debiti pubblici inferiori, anche se non di molto. La politica economica poteva agire abbassando – a differenza di oggi – in maniera significativa i tassi, ed andando in deficit (The Economist, Central bankers will fight the next recession with their backs against the wall, ottobre 2018).

Tornando al clima politico, all'epoca non esisteva un astio profondo come quello di oggi verso le classi dirigenti, che, secondo alcuni, si giustifica per l'uso fatto a loro esclusivo interesse della politica economica. Secondo questo punto di vista, la politica monetaria ha spinto al rialzo solo le attività finanziarie che, in massima parte, sono detenute dai benestanti, mentre le politiche fiscali austere hanno congelato i servizi offerti alla popolazione meno abbiente. Non solo la politica economica ha contribuito all'astio, ma anche la sempre maggior importanza delle “rendite”. Queste ultime sono da intendere come quei redditi che non traggono origine dal successo imprenditoriale - in questo caso sarebbero, infatti, “profitti” - ma dalla protezione politica, come i moltepici brevetti e la rendita fondiaria (https://www.centroeinaudi.it/lettera-economica/articoli-lettera-economica/commenti/4825-immobili-e-diseguaglianza.html).

Insomma, la politica economica – volta a dotare di un paracadute i benestanti, ossia volta a non far cadere il prezzo delle azioni e delle obbligazioni - e la struttura dell'economia - divenuta in misura crescente redditiera - hanno contribuito a redistribuire a sfavore dei meno abbienti il reddito, la ricchezza, ed anche le opportunità (G. Standing, The Corruption of Capitalism, 2016). Insomma, si ha quel che raccontano i populisti, e quel che sembra all'origine – il senso di “ingiustizia” insieme al “ressentiment” - del loro successo.

Per tornare dove i populisti hanno vinto, ed attendendo migliori informazioni sulla manovra, possiamo affermare quanto segue. In Italia 23 milioni di persone lavorano e 16 milioni di persone sono pensionate. Gli “altri” - infanti, giovani, disoccupati, casalinghe, sono quindi 20 milioni. Da un punto di vista economico 23 milioni di italiani e assimilabili trasferiscono reddito a 36 milioni di italiani e assimilabili che, per ragioni diverse, non ne producono alcuno. Se questi 23 milioni potessero usufruire di un salto di produttività, potrebbero mantenere gli altri 36 senza troppi trasferimenti di reddito. Ergo, il problema maggiore – anche in termini di equità - è la crescita. Una crescita robusta è dunque necessaria. Già, ma come ottenerla? Una politica centrata essenzialmente sulla domanda – trasferimenti per le pensioni e per il reddito di cittadinanza – non sembra il motore adatto. Qui si riapre l'annosa vicenda dei moltiplicatori che sono modesti soprattutto nel caso di una variazione dei soli consumi (https://www.centroeinaudi.it/lettera-economica/articoli-lettera-economica/asset-allocation/5008-flash-il-nadef-def-finalmente-%E2%80%A6.html).

La conclusione d'investimento: pensare che un rimbalzo dei mercati possa essere l'inizio di un ritorno della normalità potrebbe rivelarsi una mossa imprudente.