Il deficit pubblico statunitense (cresciuto poco per effetto delle maggiori spese, e molto per effetto delle minori entrate) potrebbe velocemente rientrare, se le imposte tornassero dov’erano (1). Dove erano prima che Bush II e Obama le riducessero non in via permanente, ma per un periodo limitato, allo scopo di stimolare i consumi e gli investimenti del settore privato. Eppure negli Stati Uniti la battaglia politica sul risanamento del bilancio pubblico continua, senza che una decisione sia presa.
I problemi dei paesi europei minori potrebbero essere risolti se: a) si decidesse che una quota del debito dei paesi dell’area euro fosse in comune – fino al 60% del Pil, come da trattati di Maastricht; b) si allungasse la scadenza del debito dei paesi mal messi con una contestuale riduzione delle cedole; c) i paesi mal messi portassero il bilancio dello stato in pareggio prima del pagamento degli interessi (2).
Nessuno però riesce a far digerire «ai suoi» i costi del risanamento: i tedeschi le perdite alle banche, i greci le maggiori imposte e la minor spesa pubblica a se stessi. Esemplare è la vicenda italiana: la manovra di correzione è tutta sul lato delle entrate, dove è più facile agire, piuttosto che su quello delle uscite, dove è difficile trovare il consenso (3).
Sul versante delle obbligazioni emesse dai Tesori, questa è la situazione: i debiti pubblici sono in crescita negli Stati Uniti e in Europa; negli Stati Uniti non si ha un segnale di correzione della dinamica del debito, in Europa se ne hanno molti, ma non ancora risolutivi.
I mercati finanziari hanno premiato i tedeschi e punito i paesi meno virtuosi, e il rendimento del Bund decennale è andato sotto il 3%. È questo un rendimento ragionevole o estremo?
Il titolo di stato tedesco a lungo termine rende il 3%. Chi lo compra (chi se lo tiene è come se lo comprasse) ottiene un rendimento reale (al netto dell’inflazione, che possiamo immaginare intorno al 2% – l’obiettivo della Banca Centrale Europea) lordo (inclusivo delle imposte) intorno all’1%. Un rendimento piuttosto modesto per un titolo che scade in un decennio. Eppure ha i suoi acquirenti. Come mai? Uno potrebbe guadagnare più dell’1% solo se il rendimento scendesse (guadagnerebbe in conto capitale e non in conto reddito; le cedole sono fisse e quindi un’obbligazione, per ridurre il rendimento, deve salire di prezzo). E potrebbe scendere nell’aspettativa di una nuova ondata di paura sul debito dei paesi europei mal messi. Ondata di paura che spingerebbe a comprare il debito tedesco, ciò che ne farebbe salire il prezzo. Oppure, in caso di scomparsa dell’euro nella sua forma attuale, si avrebbe una rivalutazione dell’obbligazione tedesca in monete terze per il ritorno del marco. Questi però sono – soprattutto il secondo – degli eventi estremi.
Uno allora potrebbe spostarsi verso il debito statunitense. Esso ha lo stesso rendimento di quello tedesco, ma con i conti pubblici molto mal messi. Dunque non si ha un’alternativa. Se non si vogliono correre rischi, si accetta il modesto rendimento tedesco.
Ma il rischio c’è lo stesso. Potrebbe essere un equilibrio temporaneo. Se, infatti, i problemi dell’Europa si risolvessero e questa per di più riprendesse a crescere, i rendimenti sul debito tedesco salirebbero, ossia il Bund avrebbe un prezzo inferiore. Possiamo affermare che il rendimento del 3% è ragionevole solo in caso di crisi. Se la crisi non è «perpetua», allora non lo è.
Per concludere sulle obbligazioni: la parte lunga statunitense ha un rendimento eguale a quello tedesco, ma a fronte di un bilancio pubblico in deterioramento. La parte lunga dei paesi europei mal messi ha dei rendimenti che scontano il peggio, come, ma per ragioni opposte, è il caso della parte lunga tedesca.
L’Italia è il meno mal messo dei paesi mal messi. L’analisi del suo bilancio pubblico mostra, infatti, come la «soglia critica» sia ancora alta (4). Per questa ragione il debito italiano ha un buon profilo di rischio/rendimento. Se le cose si deteriorano, è difficile che giunga agli estremi degli altri paesi mal messi, e dunque le perdite sul versante dei prezzi sarebbero contenute. Se le cose migliorano, è messo meglio del debito tedesco che sconta le cose peggiori, e che perciò – in caso di miglioramento – dovrebbe flettere molto.
Passando alle azioni, è utile guardare le cose con distacco. Una premessa, ovvia. Se compro oppure vendo un’azione (un diritto al flusso di reddito della società emittente) debbo guardare il rapporto fra il prezzo e l’utile (il reddito dell’emittente). Un’azione che costa 100 euro a fronte di un utile corrente di 10 euro costa quanto un’azione che ha un prezzo di 10 euro a fronte di un utile di 1 euro. Il rapporto fra il prezzo e l’utile in entrambi casi è 10. Dunque il livello del prezzo non ha senso. Esso ha senso se messo in rapporto all’utile. Così come gli indici azionari (che sono medie di prezzi) sono significativi solo rispetto agli utili delle società quotate.
I prezzi (5) erano pari a meno di dieci volte gli utili sia negli Stati Uniti sia in Europa per tutti gli anni Settanta. Poi sono saliti lentamente dagli anni Ottanta fino a quindici volte a metà degli anni Novanta. Da allora abbiamo avuto dei movimenti marcati. Si è avuta l’esplosione e la caduta delle azioni.
Dalla metà degli anni Novanta i prezzi in rapporto agli utili sono passati da quindici volte a quaranta volte negli Stati Uniti e a trenta in Europa nel 2000. Ossia la grande spinta della seconda metà degli anni Novanta ha circa triplicato le valutazioni negli Stati Uniti e le ha circa raddoppiate in Europa.
C’è poi stata la correzione del 2001-2003. Le valutazioni si sono dimezzate da quaranta a venti negli Stati Uniti e da trenta a quindici in Europa. Si è quindi avuta la ripresa fino al 2007, e le valutazioni sono passate da venti a trenta negli Stati Uniti e da quindici a venti in Europa.
Insomma, prima della crisi del 2007 i prezzi erano saliti rispetto al 2003, ma le azioni erano nel 2007 pagate meno di quanto non lo fossero all’apice del ciclo precedente (trenta nel 2007 invece di quaranta nel 2000 negli Stati Uniti, venti nel 2007 invece di trenta nel 2000 in Europa). I mercati azionari sono poi caduti e ripresi – dal 2009.
Oggi le valutazioni sono venti negli Stati Uniti e poco più di dieci in Europa: ossia, meno dell’apice del 2007 e molto meno dell’apice del 2000.
Si sta spegnendo la spinta degli anni Novanta e Duemila e si sta tornando verso le valutazioni degli anni Settanta e Ottanta, oppure siamo di fronte a una pausa e tutto tornerà vivace come prima? Più precisamente, le azioni europee sono già tornate ai livelli che avevano negli anni Settanta e Ottanta, mentre quelle statunitensi sono al di sopra del loro livello degli anni Settanta e Ottanta. Saranno perciò le azioni europee ad assurgere verso i livelli statunitensi, oppure saranno queste ultime a planare verso i livelli europei?
Nel dubbio sulla risposta da dare, e per concludere nel caso delle azioni, si può seguire questa argomentazione. Se tutto va bene, le azioni europee possono salire verso i livelli statunitensi; se tutto va male, dovrebbero scendere meno di quelle statunitensi. L’asimmetria dei risultati (Europa: se tutto sale, sale; se tutto scende, scende meno. Stati Uniti: se tutto sale, sale; se tutto scende, scende di più) è a favore dell’Europa. Esiste però una seconda linea di argomentazione. Se le azioni hanno ormai perso la spinta propulsiva, data dall’elevato rapporto fra il prezzo e l’utile, allora gli investimenti di valore sono quelli che hanno senso, al di là delle volatilità dei mercati.
(1) http://www.centroeinaudi.it/il-progetto-1/notizie-economiacentroeinaudiit-97/1181-wen-jiabao.html
(6) http://www.centroeinaudi.it/images/lettera_economica/azioni%20e%20obbligazioni%20-%20ice.gif
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