Negli ultimi tempi avevamo sostenuto che ci troviamo in un «equilibrio di sottoccupazione» (1), per di più «precario» (2), che ricorda la condizione del Giappone. Insomma, siamo in una sorta di trappola che possiamo definire come quella del «Giappone globale» (3). Da questa trappola si esce senza grandi problemi solo se la ripresa riprende spedita. La gran parte della ricerca legata all’industria finanziaria vede l’agognata ripresa, mentre quella legata alle istituzioni resta scettica (4). Ultimamente a noi le cose paiono sempre le stesse, ossia precarie, ma con una novità – le inchieste sui comportamenti passati dell’industria finanziaria, che potrebbero essere il «catalizzatore» di una correzione. Correzione che avrebbe tutte le ragioni per manifestarsi indipendentemente dalle inchieste. Le azioni non sono a buon mercato perché scontano una forte ripresa degli utili. Le obbligazioni hanno prezzi elevati se si considera la dinamica del debito pubblico, che cresce molto, anche simulando la ripresa.


Secondo noi, considerando i rendimenti probabili e i rischi che si corrono, è ragionevole l’acquisto di obbligazioni a breve termine, che non rendono quasi nulla. Non rendono quasi nulla ma, allo stesso tempo, sono un buon parcheggio in cui bivaccare tranquilli nell’attesa che le cose raggiungano un equilibrio inferiore, ossia che i prezzi di azioni e obbligazioni finiscano su livelli più bassi. Pensiamo, infine, che, nelle condizioni date, lo spazio in discesa delle azioni sia maggiore dello spazio in discesa delle obbligazioni.
  

Aprile 2010
    
           Stati Uniti
    
       Europa euro
 
Azioni / Obbligazioni                 --               --  
Obbligazioni / Liquidità                  -                -  

Quando la previsione è di un’attività finanziaria che va molto peggio di un’altra, il giudizio è «---»; 
«--» o «-» sono giudizi meno negativi.
Lo stesso vale con «+++» e, a scendere, con «++» o «+».



(1) Equilibrio di sottoccupazione

Negli Stati Uniti i profitti lordi sono rimbalzati con grande forza. Con i prezzi alla produzione che sono ancora molto deboli, il rimbalzo dei profitti lordi dipende dal costo del lavoro per unità di prodotto. Quest’ultimo, infatti, è flesso come mai era accaduto negli ultimi cinquant’anni. In breve, l’ascesa dei profitti non dipende dalla crescita dell’economia, ma dalla compressione dei costi. Le valutazioni di borsa sono ancora elevate, se le si misura con la media mobile degli utili degli ultimi dieci anni. Il tutto avviene mentre il rendimento sui titoli di stato comincia a salire. Possiamo affermare che gli utili sono arrivati al limite del livello che può essere raggiunto senza crescita (ossia senza poter variare i prezzi alla produzione e senza la domanda addizionale dei salariati). Questi utili «al limite» – prima o poi – saranno scontati con dei rendimenti crescenti. I mercati finanziari sembrano robusti, ossia sembra che stiano scontando il ritorno della crescita, mentre in realtà stanno scontando utili da ristrutturazione e rendimenti che sono ancora bassi per l’effetto del trascinamento della politica monetaria lasca.


(2) Equilibrio precario

Negli ultimissimi tempi il debito pubblico statunitense è stato comprato dalle banche centrali – circa 20 miliardi di dollari al mese – e da altri investitori privati – circa 60 miliardi. Questi ultimi sono soprattutto britannici, vale a dire imprese finanziarie che s’indebitano a breve termine con il sistema finanziario degli Stati Uniti e poi comprano le obbligazioni degli Stati Uniti a più lungo termine, lucrando la differenza dei rendimenti. ll debito pubblico statunitense è così finanziato in parte dall’estero, grazie alla politica dei tassi d’interesse nulli. Il nuovo debito pubblico – pari al deficit che è finanziato con obbligazioni – cresce di circa 1.300 miliardi di dollari l’anno. Esso è anche finanziato dall’interno: le banche di credito ordinario statunitensi hanno, infatti, ridotto il credito all’economia e incrementato gli acquisti di debito pubblico. Insomma, grazie al carry trade – l’indebitarsi a breve per comprare a lunga – e grazie alle modeste prospettive dell’economia, che non alimentano una gran richiesta di credito da parte delle imprese e delle famiglie, il debito pubblico statunitense è sottoscritto con rendimenti bassissimi. Dunque per ora sembra che non abbia un costo.

Fatte tutte le debite differenze – gli Stati Uniti importano capitali dall’estero e le famiglie sono indebitate –, la situazione assomiglia a quella del Giappone (vedi oltre), il quale esportava capitali e aveva le imprese indebitate. Un gran debito pubblico che cresce senza costi apparenti, sostenendo così una modesta crescita economica, è la somiglianza.

Il meccanismo che alimenta l’equilibrio odierno può andare in crisi non appena la banca centrale rialza il costo del denaro. Il carry trade a quel punto non è conveniente, e il costo del debito pubblico comincia a salire. Possiamo asserire che il prezzo del debito pubblico non è «efficiente», ossia che è più alto di quel che altrimenti sarebbe (i rendimenti – ossia la cedola divisa per il prezzo – sono più bassi di quel che altrimenti sarebbero) senza il carry trade. Ma se il prezzo del debito pubblico non è efficiente, allora anche il prezzo del debito privato non è efficiente (il prezzo del debito privato si forma a partire dal rendimento del debito pubblico, più un premio per il rischio). E nemmeno il prezzo delle azioni, che è definibile come il flusso di utili attesi scontato per il rendimento dei titoli del debito pubblico. Per prezzo efficiente intendiamo un prezzo che si forma su un mercato in cui nessun operatore è in grado di influenzare il prezzo.

Il rialzo dei tassi non sembra un problema, per ora. L’equilibrio (precario) in cui ci troviamo da un paio d’anni trova la sua soluzione solo con una ripresa forte. I prezzi delle attività finanziarie non possono essere sostenuti per sempre dalle politiche monetarie e fiscali lasche. Con la crescita, i deficit si contraggono, i debiti pubblici crescono meno e le banche centrali possono cominciare a vendere ai privati le obbligazioni che hanno intanto accumulato. Se non si avesse una forte ripresa, le cose diventerebbero molto complesse da gestire. Soprattutto, non si ha esperienza. La crisi del Giappone era un fenomeno «locale», qui abbiamo un Giappone «globale».


(3) Giappone globale

Secondo l’economista giapponese Richard Koo, il Giappone non è entrato in depressione negli anni Novanta, ma ha soltanto sperimentato una crescita nulla perché – a giudizio di Koo – aveva capito dov’era il problema. Possiamo, con linguaggio colorito, chiamare il problema lo «sciopero del debitore». In altre parole, nessuno in Giappone voleva del credito, qualunque fosse il tasso d’interesse praticato, perché doveva rendere il troppo debito che aveva cumulato. Nel caso giapponese erano le imprese non finanziarie a non volere il credito, e se nessuno vuole il credito l’economia non funziona. In questo caso non sono i tassi, per quanto bassi, che possono ravvivare la richiesta di credito. La politica monetaria dunque è spiazzata. Resta la spesa pubblica per salvare le cose: la s’incrementa fino ad assorbire la riduzione di quella privata. I finanziamenti che andavano al settore privato ora vanno a quello pubblico. Il fabbisogno finanziario dello Stato non spinge al rialzo i rendimenti delle obbligazioni, perché il settore privato non chiede più, fintanto che deve ridurre il proprio debito, capitali al mercato. Secondo Koo, basta sostituire al settore delle imprese giapponesi quello delle famiglie americane per capire la situazione statunitense.

Koo sostiene che non bisogna tentare di ridurre il deficit pubblico fino a quando non si è sicuri che l’economia torni a chiedere credito. Se si cerca di controllare prima del tempo il deficit pubblico, contando – o sperando – che al minor credito chiesto dal settore pubblico corrisponda automaticamente un maggior credito chiesto dal settore privato, si rischia di peggiorare le cose – proprio come avvenne in Giappone nel 1997 e nel 2001. La scelta degli europei e degli statunitensi oggi è – secondo Koo – quella di lasciar correre il debito pubblico per evitare la depressione. L’alternativa, ossia portare sotto controllo il debito pubblico qui e ora per evitare che «scappi di mano», rischia di peggiorare le cose. Per Koo, il bilancio pubblico va portato sotto controllo solo quando si è sicuri che è ripartita la domanda di credito del settore privato. Allo stato le imprese e le famiglie non sono tornate a chiedere credito né in Europa né negli Stati Uniti. Come si vede, viviamo in tempi di decisioni difficili. Per chiarire che non si tratta di «accademia»: la decisione tedesca di portare in pareggio il bilancio pubblico nel 2016 sembra una mossa nella direzione sbagliata, soprattutto se l’economia mondiale stenta a crescere e quella dei paesi europei minori indebitati, acquirenti di merci tedesche, entra in recessione per portare sotto controllo il debito pubblico.


(4) Scuole di pensiero

La crisi è stata arginata – dalle banche centrali in campo monetario – portando a zero i tassi di interesse e aumentando a dismisura gli acquisti di titoli obbligazionari pubblici e privati. Questo è avvenuto nei paesi anglosassoni. Nei paesi dell’area euro la crisi è stata arginata portando a zero i tassi di interesse e aumentando a dismisura i finanziamenti alle banche, che portavano allo sconto i titoli di stato, anche di qualità inferiore. La crisi è stata arginata – dai Tesori in campo fiscale – lasciando crescere le uscite legate ai trasferimenti di reddito alle famiglie in difficoltà, come gli assegni di disoccupazione, nonostante le entrate fossero in caduta. Questo è avvenuto negli Stati Uniti, che hanno uno stato sociale meno diffuso di quello europeo. Nell’Europa continentale, i deficit pubblici si sono espansi meno proprio perché l’intervento pubblico è di norma maggiore. I paesi europei che hanno avuto una crescita del deficit pubblico di entità «statunitense» sono stati la Gran Bretagna, la Spagna e la Grecia. Dunque il settore pubblico – le banche centrali, i ministeri di spesa – ha sostenuto i mercati finanziari e reali come non si aveva memoria dalla fine delle seconda guerra mondiale. La crisi non si è avvitata. Venendo meno l’avvitamento, i mercati hanno corretto il fattore di sconto e sono rimbalzati. Si danno due scenari.
• A) Lo scenario di base, ossia il più probabile, è costruito – dai ricercatori delle banche d’affari – secondo questo schema: 1) la crescita riprende; 2) i deficit pubblici come conseguenza si contraggono; 3) i rendimenti salgono verso i livelli precedenti la crisi, ma i debiti pubblici – grazie alla crescita – non si avvitano. Si ricava – dai punti 1-3 – che le obbligazioni a lungo termine, nello scenario base, non sono attraenti; 4) gli utili delle imprese, soprattutto negli Stati Uniti, salgono più che proporzionalmente all’impulso proveniente dalla domanda, perché con le forti ristrutturazioni che si sono avute è cresciuta la leva operativa. Gli utili quindi tornano verso i livelli precedenti la crisi già verso il 2011. Quest’ascesa degli utili alla fine bilancia la crescita dei rendimenti (= il fattore di sconto delle azioni, discusso prima) e perciò il livello dei prezzi delle azioni alla fine si stabilizza.
• B) Lo scenario di base, ossia il più probabile, è costruito – dai ricercatori delle grandi istituzioni, che, si noti, non analizzano mai le azioni ma solo le obbligazioni – secondo questo schema: 1) la crescita non sarà forte, perché le famiglie debbono rendere il debito accumulato, mentre la disoccupazione resta elevata; 2) i deficit pubblici come conseguenza si contraggono molto poco e i debiti pubblici continuano a salire; 3) i rendimenti hanno due vettori che li influenzano: quello del rischio specifico – i debiti crescenti che «comandano» rendimenti crescenti – che li spinge al rialzo, e quello del rischio di crisi sistemico – se non arriva la ripresa, le azioni scendono e dunque le obbligazioni possono essere attraenti – che li spinge al ribasso.



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