La giustificazione dell’ascesa dei corsi delle azioni negli ultimi tempi si basava su una doppia «narrativa»: il miglior andamento societario negli Stati Uniti e la ripresa dell’economia cinese, quest’ultima era la prova che l’economia mondiale poteva velocemente riprendere. Nel primo caso, si cantava il miglioramento degli utili, ma non si ricordava con pari enfasi la modesta crescita dei fatturati. Nel secondo, non si teneva conto di com’è organizzata la contabilità nazionale – in Cina si considera «spesa» la «volontà di spesa». È come se si contabilizzasse nel PIL il Ponte sullo Stretto di Messina prima ancora di avere posato la prima pietra. Si è creato alla fine un «ambiente comunicativo» che sosteneva, con sicumera, che siamo al termine della recessione. Il traguardo – a ben guardare – era convincere chi era stato «alla finestra» che tutto sta andando per il meglio e che «è ormai ora di rientrare» nei mercati finanziari. Da qualche tempo la doppia narrativa sembra meno convincente. Si comincia a dubitare della tenuta delle azioni, casomai la crescita non fosse poi così forte. Gli ultimi numeri disponibili sulla crescita mostrano, infatti, un rimbalzo meno robusto. Si comincia ad avere dei dubbi sulla crescita cinese: se, infatti, questa fosse davvero spettacolare, perché mai le autorità vorrebbero la perpetuazione delle politiche economiche lasche?
All’origine abbiamo le famiglie statunitensi, l’epicentro della crescita degli ultimi decenni, che sono meno ricche per la flessione del prezzo delle azioni e delle case, e che debbono ridurre l’onere del proprio enorme debito. Le famiglie debbono consumare di meno – ossia risparmiare di più. Per evitare l’avvitamento dell’economia, lo stato deve quindi spendere di più. Ma la maggior spesa statale si trasforma in emissioni di nuove obbligazioni. Dovremmo perciò avere una domanda privata anemica e una pressione sui rendimenti delle obbligazioni. Il punto è precisamente questo: una ripresa stentata trainata dal settore pubblico.
I prezzi delle azioni non possono comportarsi come se le cose possano tornare alla normalità in poco tempo, e anche i prezzi delle obbligazioni non possono comportarsi come se le grandi emissioni di debito pubblico possano essere sottoscritte con rendimenti invariati. Non tenuta nella debita considerazione è poi la strategia di uscita dalle politiche monetarie e fiscale straordinarie. Le politiche di uscita dalla crisi – il rialzo dei tassi di interesse praticati e la riduzione della spesa pubblica in deficit – vanno attuate quando si è al di là della crisi oppure in anticipo, scommettendo che la ripresa ci sarà? Se le si vara in anticipo e non si ha ripresa, si contribuisce ad alimentare la ricaduta. Se le si vara in ritardo, i mercati finanziari possono non credere che al periodo delle «vacche grasse» seguirà quello delle «vacche magre» – una combinazione grazie alla quale il debito pubblico è tenuto sotto controllo nel corso di un intero ciclo. Se le si vara in ritardo, il rendimento richiesto per sottoscrivere il debito pubblico in scadenza e in emissione potrebbe salire moltissimo, producendo un deficit permanente «da interessi» al posto di quello temporaneo «da sussidi di disoccupazione».
Il bivio decisionale dell’investitore è – a nostro avviso – questo: A) La crisi è quasi finita e quindi la borsa anticipa la ripresa, salendo. La ripresa genererà un gettito fiscale tale che il debito pubblico sarà sotto controllo; e dunque i rendimenti sono giustamente bassi. Il dollaro, infine, è debole perché si vendono dollari per comprare le attività più lucrative. Ci s’indebita, per esempio, negli Stati Uniti all’1% e si comprano obbligazioni australiane a due anni al 4%. La debolezza del dollaro non è un segno di crisi, ma di fiducia. Le materie prime industriali salgono perché in Asia c’è ripresa. B) La crisi è quasi finita, ma la ripresa sarà stentata, perché le famiglie statunitensi non consumeranno come prima, in quanto debbono ridurre il debito. La ripresa stentata della domanda per consumi frenerà la crescita degli utili. Inoltre, non alzerà molto il gettito e quindi i deficit pubblici resteranno elevati e le obbligazioni in offerta saranno cospicue. La crescita della borsa è stata eccessiva. I rendimenti sono ancora bassi, ma alla fine saliranno, dunque i prezzi delle obbligazioni alla fine scenderanno. Le materie prime industriali salgono perché in Asia non ci si fida del dollaro. Inoltre, la domanda di oro rafforza il sospetto che vi sia timore diffuso sulla tenuta del dollaro. Tutto sembra che stia andando per il meglio, proprio come sembrava nel Giappone degli ultimi vent’anni: anche lì sembrava che le cose potessero rimettersi in carreggiata, ma poi questo non avveniva. Sarà un caso, ma il mercato azionario giapponese è quello che va peggio.
La nostra interpretazione è la seconda. La nostra idea è che le azioni possano flettere molto, così come possono flettere le obbligazioni emesse dai Tesori, seppure meno delle azioni. Di conseguenza, da un punto di vista strategico conviene aspettare che i prezzi raggiungano un nuovo equilibrio (inferiore).
| | |
|
Azioni / Obbligazioni | -- | -- |
|
Obbligazioni / Liquidità | - | - |
|
«--» o «-» sono giudizi meno negativi.
Lo stesso vale con «+++» e, a scendere, con «++» o «+».
© Riproduzione riservata