Il 24 giugno 2016 è una data che, seppur recente, è già entrata di diritto nei libri di storia. Con un referendum, gli abitanti del Regno Unito hanno interrotto bruscamente un percorso di integrazione nel vecchio continente che andava avanti dal 18 aprile 1951, anno in cui venne creata con il trattato di Parigi la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, antenata dell’odierna Unione Europea. Lo hanno fatto grazie all’opinione espressa dal 51,9% dei 33 milioni e mezzo di cittadini britannici che si sono recati alle urne.
Il voto ha sorpreso non solo i media continentali, ma lo stesso establishment inglese, in maniera bipartisan, causando una serie di dimissioni che lasciano il paese in preda all’incertezza. Quali sono gli scenari che si prospettano all’orizzonte? Abbiamo deciso di descriverne cinque, basati su modelli esistenti. Ovviamente si potrebbe optare per una soluzione ibrida, ma un modello di riferimento iniziale è tuttavia indispensabile per poter iniziare le contrattazioni, in modo da poter disporre di una base comune di discussione e di un modello di cui già si conoscono pregi e difetti. Avrebbe inoltre il vantaggio di essere già pronto, andando a ridurre il periodo di incertezza, particolarmente nocivo per i mercati, non solo finanziari.
Una biforcazione iniziale riguarda l’articolo 50 del trattato di Lisbona: il Regno Unito deciderà di invocarlo? L’articolo 50 descrive la procedura unica prevista dalle istituzioni europee per abbandonare l’Unione. Prevede una durata massima di due anni ed è stato scritto in modo da svantaggiare il più possibile il paese che decidesse di invocarlo. Deve però essere richiesto dal paese che decide di uscire, ed anche per questo Cameron ha preferito le dimissioni. Secondo molti esperti la Gran Bretagna spingerà il più possibile per avere un agreement speciale ed evitare questa procedura che potrebbe risultare troppo punitiva. D’altro canto, il Consiglio Europeo a poche ore dall’esito del referendum ha promesso alla Commissione, ed ha dichiarato pubblicamente, che non entrerà in nessuna discussione con il Regno Unito che non preveda espressamente l’uso della procedura standard.
Dopo essersi piegati a decine di eccezione e cavilli negli ultimi anni (non ultima la non decisione all’ultimo European Semester per non multare Spagna e Portogallo, che avrebbero dovuto essere multate), l’Europa deve rimanere rigida sulla sua posizione, pena un’ulteriore perdita di credibilità ed il sempre meno improbabile rischio di implosione. Al momento in cui scriviamo tuttavia, sia Theresa May che Andrea Leadsom parrebbero orientate a percorrere questa strada, seppur con tempistiche diverse (nel 2017 la prima, quanto prima la seconda). Inoltre, come scritto dal Europarlamentare britannico Andrew Duff, l’Unione Europea avrebbe addirittura margine per poter ricorrere alla Corte di Giustizia Europea, che avrebbe prevalenza sulla legge nazionale fintanto che il Regno Unito sarà formalmente parte dell’Unione.
Passiamo quindi all’analisi dei cinque possibili scenari principali:
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Ammesso che si decida di applicare l’articolo 50 quindi, l’opzione più sponsorizzata da molti esperti è quella norvegese (anche da Boris Johnson prima di decidere di non candidarsi a leader Tory). Sostanzialmente prevede di rimanere allineati alle politiche europee tranne che su agricoltura e politiche marittime e di pesca (cavallo di battaglia di Nigel Farage durante la sua campagna). La Gran Breatgna resterebbe nel mercato unico, ma come la Norvegia contribuirebbe al budget europeo (cosa che i brexiteers non volevano, i famosi 350 milioni a settimana mandati a Bruxelles, cifra che in realtà ammonterebbe a 165 milioni secondo la UK Statistics Authority), avrebbe libera circolazione di persone (cosa che i brexiteers non vorrebbero), e perderebbero il diritto di voto, cosa che l’Inghilterra aveva. E’ da notare inoltre che UK ha perso il proprio commissario a FISMA, il “ministero” della Commissione Europea sui servizi finanziari, servizi centrali per l’economia anglosassone (il commissario, Jonathan Hill era stato scelto da Cameron, e si è dimesso poco dopo l’esito del referendum). La prestigiosa posizione era stata assegnata alla Gran Bretagna da Juncker all’inizio del suo mandato come segno di distensione, data l’importanza del ramo finanziario per l’economia britannica. Anche tutta una serie di riforme che la Gran Bretagna ha sempre osteggiato (come la single capital markets authority prospettata l’anno scorso all’interno del Five Presidents report, come altre politiche pensate principalmente per stabilizzare l’eurozona) potrebbero finalmente avere il via libera. Sarebbe insomma fortemente punitiva per UK, ed è ironicamente l’opzione meno dannosa per i sudditi di Sua Maestà, con un buon margine.
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L’opzione svizzera. Una serie di accordi bilaterali regola le dinamiche tra la nazione elvetica ed i 28 paesi (a breve 27). Il paese fa solo parte del mercato unico dei beni ma non dei servizi, e quindi sarebbe un durissimo colpo per la Gran Bretagna. Inoltre L’Unione sarebbe tutt’altro che favorevole ad una soluzione simile. Bruxelles è infatti costretta a tenere costantemente d’occhio l’evolversi della legislazione elvetica, in modo tale da controllare che la complessa serie di requisiti richiesti dall’onnicomprensiva, e costantemente in evoluzione, regolamentazione europea sia rispettata. I rapporti con la Svizzera poi si sono fortemente raffreddati dal 9 febbraio 2014 quando, tramite un altro referendum, il popolo svizzero votò per introdurre quote all’immigrazione. Da quel momento l’Unione ha cercato di negoziare un nuovo accordo con la Svizzera, che punterebbe ad introdurre automaticamente la legislazione europea nel corpus giuridico elvetico, oltre a far sottostare il paese alla giurisdizione della Corte Europea di Giustizia (la quale casserebbe immediatamente le quote alla libera circolazione di persone).
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La Gran Bretagna potrebbe poi scegliere di far parte dell’unione doganale europea, come la Turchia. La Gran Bretagna si troverebbe a poter commerciare beni, ma le tariffe esterne decise con membri commerciali terzi sarebbero decise unilateralmente dall’Europa. Inoltre, la Turchia è allineata all’Unione Europea per gli standard industriali, considerati soffocanti da molti brexiteers.
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Un Accordo di Libero Scambio. Ne esistono di molti tipi e la situazione è in costante evoluzione. Di solito una loro contrattazione e messa in atto richiederebbe tre anni ma nel caso inglese, la cui economia è già completamente armonizzata a quella europea, sarebbe molto più rapida. Ne esistono di diversi, e la Commissione Europea è un ottimo negoziatore. Di fatto si passa da un accordo come quello con la Corea del Sud, considerato avanzatissimo al tempo della sua approvazione cinque anni fa, ma siglato in un periodo in cui la Commissione non aveva ancora la possibilità di avere un capitolo a parte sugli investimenti, a quelli che si stanno cercando di concludere con Singapore e Canada, i quali invece prevedono oltre al commercio di beni e servizi, anche un capitolo a parte proprio sugli investimenti. Inoltre, nelle negoziazione per il TTIP (negoziate da parte europea da Ignacio Garcia Bercero, lo stesso negoziatore dell’ottimo accordo siglato con la Corea del Sud), Europa e Stati Uniti sembrano andare nella direzione di un “accordo vivente”, in cui si potrebbe istituire una specie di tribunale per discutere e dirimere dubbi portati avanti su eventuali barriere commerciali create dopo la firma del trattato.
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Infine, si potrebbe decidere di non siglare alcun accordo, e la relazione tra Unione a 27 e Gran Bretagna sarebbe regolamentato seguendo le norme della World Trade Organization (WTO), di cui entrambi sono membri. Questo comporterebbe però una perdita di accesso considerevole al mercato europeo da parte del Regno Unito (e per Londra sarebbe la fine ufficiale del periodo da capitale finanziaria d’Europa). Le esportazioni britanniche verso l’Europa (la metà del totale), sarebbero fortemente danneggiate dalla presenza di dazi. Inoltre il WTO ha fatto recentemente pochissimi progressi in avanti (ed è per questo che negli ultimi anni fioriscono aree di libero scambio, come il TPP nell’area del pacifico, o accordi bilaterali).
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