Un anno fa saltava la prima banca d’affari. Commemoriamo l’anniversario.


L’allarme della crisi finanziaria in arrivo è suonato potente un anno fa. Il 16 marzo del 2008 Bear Stearns, la più piccola delle più importanti banche d’investimento americane, era svenduta a due  dollari per azione a Jp Morgan. Una rivolta degli azionisti fece poi quintuplicare il prezzo, l’accordo fu chiuso, infatti, a dieci dollari, ma nel collasso di Bear Stearns c’era già scritta tutta la tossicità che di lì a qualche mese avrebbe travolto i grandi colossi bancari e assicurativi.

Eppure nessuno colse – o volle cogliere – l’occasione per mettere mano ai propri bilanci. Charles Gasparino, giornalista della Cnbc, dice che fu soltanto «un bip nel radar», che i manager distratti dai soldi facili non registrarono neppure. Ad aumentare la nebbia c’era anche la presenza di Jimmy Cayne, il padre padrone di Bear Stearns che molti, nell’ambiente, detestavano. Fu facile condannare la malagestione di un manager tanto arrogante e offensivo – nonché quasi noncurante, visto che nella notte in cui fu decisa la vendita lui arrivò molto in ritardo, perché era a Detroit a giocare a  bridge. Poi si moltiplicarono le voci di una punizione ad hoc: Cayne infatti, unico tra tanti, si era rifiutato, alla fine degli anni Novanta, di salvare l’hedge fund Long-Term Capital Management, nonostante le pressioni di Washington e della Fed, all’epoca guidata da Alan Greenspan. Così, secondo i maligni, Hank Paulson, allora ministro del Tesoro, si sarebbe preso la sua rivincita contro Cayne, il suo «no» e il suo modo arrogante di fare il banchiere.

Insomma, il rumore di sottofondo era alto e fastidioso. Ma oggi tutti concordano nel dire che non fosse così fragoroso da coprire la sirena dell’allarme della crisi in arrivo. Anche perché poco tempo prima pure Merrill Lynch e Citigroup erano state travolte dal credit crunch (1), con conseguente defenestrazione dei rispettivi management. Come recitano i motti che oggi si sentono ripetere a Wall Street, «se cammina come un’anatra, se starnazza come un’anatra…». Eppure, nessuno riconobbe quest’anatra. Gli occhi erano più puntati su Jp Morgan e su quella che molti consideravano «una rapina». Si temeva lo strapotere di Jamie Dimon, amministratore delegato di Jp Morgan, più che l’estinzione di una banca d’investimento che, negli anni, si era guadagnata una certa credibilità. Questo tuttavia non le aveva impedito di utilizzare allegramente i derivati in tutte le loro (de)formazioni: quando, nell’agosto del 2007, fu chiaro che Bear Stearns era esposta in modo pericoloso sul fronte dei subprime (2) – la banca aveva perso in due mesi quasi il 30 per cento del valore di borsa – Cayne licenziò il presidente della banca, pensando così di aver fatto giustizia e di poter ricominciare a dare fiducia ai mercati. L’«Economist» ha raccontato che «la paura quasi ossessiva di apparire debole» rese Cayne riluttante a varare un aumento di capitale, aggravando ulteriormente le condizioni del bilancio.

La lezione non arrivò ai destinatari e così passarono ancora sei mesi prima che l’improvvido fallimento di Lehman Brothers scatenasse il crac finanziario. Ma che le banche fossero fragili era chiaro, così come il fatto che non si trattava di una crisi di liquidità, bensì di una crisi di insolvenza (3).

 
(1) Espressione di uso comune, vuol dire stretta creditizia; essa può essere intesa a) come la politica della banca centrale più stringente che si trasmette alle banche e quindi ai clienti di queste ultime, oppure b) come una politica della banca centrale lasca che non si trasmette alla clientela delle banche, perché queste ultime sono in difficoltà.
 
(2) I mutui subprime sono chiamati così perché erogati non alla clientela di qualità, detta prime. I controlli sui mutuatari erano molto modesti e il mutuo era erogato con condizioni «strambe», per esempio si pagavano gli interessi ma non le quote di ammortamento; queste si pagavano alla fine, e quindi il mutuo nei primi tempi sembrava «leggero».
 
(3) Uno è solvente se è in grado di pagare nel corso del tempo i propri debiti. Può però essere in crisi di liquidità, ossia non in grado di pagare il debito che va in scadenza, nonostante sia «sano». In questo caso lo si finanzia e la crisi termina. Un operatore è insolvente se non è in grado di pagare il debito in scadenza, anche immaginandolo in grado di vendere tutte le altre attività. In questo caso non basta finanziarlo per un tempo limitato.