E' una osservazione ovvia quella che afferma che in questo momento i mercati finanziari italiani siano sotto l'influenza delle vicende politiche. E sotto l'influenza di vicende diverse da quelle che caratterizzano la normale dialettica politica. Qual è allora la “normale” dialettica politica?
La cosiddetta Seconda Repubblica (1994-2018) si basava sull'alternanza - in breve PdL versus Ulivo - anche se ha avuto dei governi di coalizione come il Letta I. Nulla di davvero anomalo. L'anomalia italiana o se si vuole l'originalità era nella Prima Repubblica (1946-1994), quando si aveva un sistema proporzionale con l'alternanza bloccata verso il PCI. Verso il MSI era altra storia. L'alternanza bloccata verso il PCI finisce con la caduta del Muro di Berlino e verso il MSI con il cosiddetto “sdoganamento”.
Dalla fine della seconda Guerra i comunisti fino alla caduta del Muro e poi i loro eredi fino a Prodi I erano stati fuori dal governo. Era in atto il fattore K (K=Komunismo), ossia l'esclusione per principio dal governo di una forza che non solo si rifaceva alla potenza avversaria, ma aveva anche il progetto di abolire dei pezzi essenziali della società liberale, come la proprietà. L'opposizione comunista “tirava la corda, ma non la rompeva mai del tutto”, o, se si preferisce, era un “partito di lotta e di governo”. L'argomentazione per comprendere lo scontro di quei decenni e la politica economica che ne seguiva è lunga, perciò - per non appesantire il testo - la trovate qui sotto in corsivo..
Oggi si hanno ancora delle forze politiche che vogliono la spesa in forte deficit e la lira come soluzione per rilanciare l'economia. Alcuni hanno simpatia per le nazionalizzazioni. Ossia, si vogliono cancellare le tre cose che sono state fatte negli ultimi decenni: il deficit sotto controllo, la moneta comune, le privatizzazioni. Le tre cose avevano lo scopo di frenare la spesa pubblica incontrollata, rompere con la rincorsa salari → prezzi --> svalutazione, e con la presenza del sistema politico nelle imprese industriali e finanziarie.
Oggi il fattore K, è sostituito dal fattore P (P=Populismo). I Populisti (1) saranno in grado di tirare la corda senza spezzarla, ossia essere sia di lotta sia di governo cum jucio (2)? E qual è la differenza fra il fattore K e P?
La differenza tra K e P è che allora il PCI riconosceva in qualche modo la fondatezza dell'esclusione. Oggi la Lega e i M5S non vedono la legittimità dell'esclusione. Per questo è fallita la trattativa col Quirinale. Utilizzano il tema della lealtà ai patti stipulati con l’Europa e con la NATO come argomento principe per contestare la legittimità dei poteri nazionali e internazionali. Una seconda differenza “è che il Fattore K ebbe successo perché si affermò in anni di benessere e ottimismo, e fu visto dalla maggioranza come elemento di protezione di uno stato delle cose libero, soddisfacente, garantito, contro i rischi delle derive totalitarie” (3). Oggi questa soddisfazione verso il presente e questo ottimismo verso il futuro non sembra esserci.
- Il bilancio dello stato, la finanza, e le forze in campo
Dagli anni Sessanta e, parzialmente, fino agli anni Ottanta, si poteva ampliare lo “Stato Sociale”, anche in assenza di un gettito che coprisse le maggiori spese. Poi non più, perché il debito stava crescendo troppo. A quel punto, il debito pubblico doveva andare sotto controllo, cosa che è avvenuta con i primi anni Novanta. Da allora, il debito pubblico italiano è cresciuto solo per la parte relativa al pagamento degli interessi, quando questa era, come è stata, seppur non di molto, maggiore del surplus primario. In un primo periodo, quello fino agli anni Ottanta inoltrati, abbiamo avuto dei rendimenti negativi (tenendo conto dell'inflazione) dei titoli del Tesoro, nel secondo dei rendimenti positivi.
Provo a elaborare il meccanismo del debito e dell'inflazione, della correzione dei conti, e degli effetti della dinamica salariale.
All'origine del debito e dell'inflazione degli anni Settanta e Ottanta. a) una spesa pubblica maggiore delle entrate produce un deficit, che può essere finanziato da una combinazione di emissione di obbligazioni e di moneta; b) soprattutto negli anni Settanta, le obbligazioni, se non sottoscritte dai privati, erano acquistate dalla Banca d'Italia; c) in questo modo, la moneta che entrava nel sistema cresceva, e, alla lunga, produceva inflazione; d) l'inflazione non poteva essere anticipata da un mercato finanziario primitivo come quello di allora e, di conseguenza, i rendimenti del debito pubblico erano negativi, ossia il rendimento delle obbligazioni emesse dal Tesoro era inferiore al tasso d'inflazione; e) poiché le entrate dello stato crescono in proporzione alla crescita del reddito nazionale nominale, lo stato aveva delle entrate fiscali crescenti (seppur inferiori alla crescita delle spese), mentre pagava il debito pubblico (le cedole e i titoli in scadenza) in moneta corrente, il cui valore era inferiore a quello in essere quando le obbligazioni erano state sottoscritte; f) in questo modo il debito pubblico pesava relativamente poco sul bilancio dello Stato e perciò la spesa appariva meno onerosa. Dagli inizi degli anni Ottanta, questo meccanismo di un debito pubblico con costo occultato è bloccato dalla decisione - detta del “divorzio” - fra la Banca Centrale e il Tesoro, ossia la Banca d'Italia non poteva più comprare il debito non optato dai privati. Venendo meno la domanda della Banca d'Italia, il debito, per essere sottoscritto dai solo privati, doveva offrire un maggior rendimento, che cominciò a diventare maggiore del tasso di inflazione. In questo modo, il debito pubblico aveva un costo finanziario e politico esplicito, e dunque non poteva più essere la variabile che “accontentava tutti”, vale a dire sia i fruitori della spesa, sia chi frenava sul versante del pagamento delle imposte.
La correzione dei conti dagli anni Novanta. a) se il bilancio dello stato è in avanzo (le entrate sono maggiori delle spese) ecco che si ha un surplus (detto “primario”). Se questo surplus è pari al pagamento degli interessi, non è più necessario emettere altre obbligazioni per pagare gli interessi. E dunque si ha il pareggio di bilancio. b) in questo modo, non si emettono più obbligazioni, e il debito pubblico è invariato. Man mano che l'economia cresce, sempre che si mantenga un “surplus primario” adeguato, il debito pubblico finisce per pesare sempre meno sul bilancio dello stato e dunque sul conflitto politico legato alla combinazione delle entrate e delle spese. c) un rapporto debito / PIL decrescente riduce il rischio che un rialzo dei rendimenti possa creare una crisi.
Gli effetti della dinamica salariale. a) se i salari crescono più del prodotto per addetto, ecco che o i prezzi debbono salire, rendendo le merci più costose e quindi meno competitive rispetto a quelle prodotte con salari che crescono come la produttività o meno della produttività. b) I salari in linea o sotto la produttività aumentano il margine di profitto lordo, e dunque la possibilità di ridurre i prezzi, oppure aumentare la qualità a parità di prezzo, e in ogni modo consentono di accrescere l'autofinanziamento d'impresa.
A un certo punto è presa la decisione di entrare nell'euro, con ciò intendendo che il debito pubblico sarebbe dovuto andare sotto controllo, e il meccanismo dell'aggiustamento dei conti (e del consenso) attraverso le svalutazioni reso impossibile. Questa è stata la “grande decisione” presa negli anni Novanta.
In breve. I salari crescevano più della produttività. Ad un certo punto le merci italiane diventavano meno competitive, e dunque o si fermava la crescita salariale, o si investiva in tecnologie superiori, che avrebbero “protetto” la crescita del costo del lavoro. La svalutazione della lira diventava la più semplice delle soluzioni, perché le merci italiane tornavano temporaneamente appetibili, mentre non si toccava la dinamica salariale, ossia si lasciavano intatte le “relazioni industriali”. Questo percorso non richiedeva – almeno nel breve termine – che la tecnologia salisse di livello - una cosa peraltro regolarmente non avvenuta, neppure nel periodo più lungo.
L'Italia ha visto dimezzare, grazie all'euro, il costo del debito. Nel 1996, quando è iniziata la convergenza nell'euro, il rendimento del BTP era intorno al 9%. Anni dopo – nel 2010 - è arrivato al 4%. Oggi è intorno al 2,5%. Facendo i conti, si è avuto un risparmio da interessi cumulato di ben oltre 500 miliardi. Era la grande occasione – pur senza crescita - per assorbire il debito che si era formato negli anni Settanta e Ottanta, ai tempi della costruzione – che possiamo definire accelerata - dello Stato Sociale, ma così - purtroppo - non è andata. L'euro però ha funzionato, nel senso che ha portato alla convergenza dei rendimenti delle obbligazioni e dell'inflazione, con i Paesi che ne potevano trarre il maggior vantaggio erano quelli “mal messi”, fra cui il nostro.
Il debito pubblico italiano fino agli anni Ottanta era detenuto dalle banche italiane. Era facilmente governabile, perché le banche erano in gran parte pubbliche. Poi, negli anni Novanta, il debito pubblico è passato nelle mani delle famiglie. Era di nuovo facilmente governabile, perché in cambio di rendimenti molto elevati, queste lo sottoscrivevano.
Si aveva così un meccanismo di consenso semplice. La politica governava il deficit e il debito prima attraverso le “sue” banche e poi attraverso gli alti rendimenti. In questo modo non si poteva formare un giudizio di merito sul debito italiano. Nel primo caso gli investitori erano “catturati”, nel secondo “sedotti”. In breve, il Principe non faticava per ricevere il consenso degli elettori, perché il debito crescente si sarebbe poi scaricato sui “non nati”, che - per definizione - non votano. (Si può dire la stessa cosa del sistema pensionistico che allora elargiva dei redditi superiori ai versamenti).
Arriva con gli anni Novanta il momento del “mercato” nella doppia direzione degli Italiani che possono investire all'estero, e dell'estero che può investire in Italia. I giudizi di merito si possono perciò formare: qual è il premio – il maggior rendimento richiesto - per detenere il debito italiano rispetto a quello tedesco? Il Principe deve ora – e a differenza di prima - convincere una platea piuttosto vasta che il suo debito è sottoscrivibile. Cambia così la natura del rapporto: nel primo caso il Principe non doveva convincere nessuno intorno alla tenuta del debito, nel secondo, invece, deve farlo: deve varare delle politiche che siano coerenti nel tempo.
Chi desidera il ritorno della spesa pubblica in deficit (finanziato con obbligazioni emesse in lire, o, addirittura, per alcuni con l'emissione anche di moneta) è infastidito dal controllo che l'industria finanziaria esercita indirettamente (attraverso il differenziale di rendimento: il famigerato spread) sulle politiche economiche, ed è anche infastidito dal controllo di Bruxelles sui vincoli di deficit e debito. E quindi accusa i “poteri forti” di essere il nemico dell'Italia.
Fu però deciso dal potere politico italiano e non dai poteri forti la cessione di sovranità. Perché? Questo il ragionamento: l'Italia ha una base industriale, ma essa è penalizzata dagli alti tassi di interesse. Il livello di questi ultimi dipende dall'inflazione corrente e dall'incertezza intorno al suo corso futuro. L'incertezza richiede un premio (per il rischio) sopra il tasso di inflazione corrente. Il denaro alla fine costa molto più che in altri Paesi e penalizza l'industria italiana (ma anche le famiglie se accendono i mutui, e il Tesoro in sede di pagamento degli interessi).
Vincolando il cambio, l'inflazione non potrà che scendere, e vincolando il bilancio pubblico (come era stato fatto quindici anni prima) al solo finanziamento con obbligazioni (ossia senza emissione di moneta), l'inflazione non potrà che scendere. Se l'inflazione si comprime, i tassi (reali) d'interesse si comprimono, perché scompare il premio per il rischio, e quindi l'industria italiana non sarà più penalizzata rispetto ai concorrenti esteri.
Il ragionamento fin qui è lineare, ma manca un pezzo tutto fuorché secondario. La decisione di apertura dei mercati e di adozione dell'euro aveva un risvolto politico molto forte, perché il meccanismo dell'aggiustamento dei conti (e del consenso) attraverso le svalutazioni era ora reso impossibile.
I salari in Italia crescevano più della produttività. In diversi momenti nel corso del tempo - ossia man mano che crescevano i differenziali di inflazione - le merci italiane diventavano meno competitive, e dunque si era a un bivio: o si fermava la crescita salariale, o si investiva in tecnologie superiori che avrebbero protetto la crescita del costo del lavoro. C'era però una terza opzione. La svalutazione della lira era la più semplice delle soluzioni, perché le merci italiane tornavano (temporaneamente) appetibili, mentre non si toccava la dinamica salariale, ossia si lasciavano intatte le “relazioni industriali”. Questo percorso non richiedeva – nel breve termine – che la tecnologia salisse di livello
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(1) http://www.centroeinaudi.it/cerca.html?gsquery=populismo
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