Uno dei luoghi comuni più diffusi in finanza è quello che lega la crescita economica e l’ascesa dei corsi di borsa. Si asserisce, infatti, che, se l’economia cresce, giocoforza la borsa azionaria deve salire. Ovvio: se l’economia cresce, anche i profitti crescono, e le azioni, che alla fine sono un titolo di proprietà sui profitti medesimi, non possono che crescere. Ebbene, i numeri non sostengono quest’idea.
Si prendono i numeri dal 1900 al 2002. Si calcola la crescita media annua composta del reddito pro capite al netto dell’inflazione. Si calcola il rendimento delle azioni: la crescita dei prezzi con i dividendi reinvestiti al netto dell'inflazione. I risultati – in forma di istogramma – sono questi:
Si prenda l’Italia. È il paese che su un secolo ha registrato il maggior tasso di crescita pro capite, dopo il Giappone. Eppure la sua borsa è quella che è cresciuta meno, a esclusione del Belgio. Le differenze fra crescita economica e borsa sono abissali. (Si deve tener conto che una differenza anche di un punto percentuale su cento anni a tasso composto produce delle differenze assolute abnormi). Ma non è solo l’Italia a essere anomala: si vede dagli istogrammi che non si ha relazione fra crescita economica e crescita dei valori di borsa.
Le spiegazioni possono essere molte. Una è che i paesi usciti sempre vincitori delle guerre – i paesi anglosassoni, oppure neutrali, i paesi scandinavi – hanno fatto meglio. Dunque i paesi sconfitti – l’Italia, la Germania e il Giappone – o semisconfitti – come la Francia nel secondo dopoguerra – o usciti da una guerra civile – come la Spagna – hanno fatto peggio.
(La spiegazione delle guerre perse non convince molto. Nel caso dell’Italia, sarebbe come dire che essa, senza il duce prima e la guerra rovinosa poi, avrebbe fatto meglio. Può darsi, ma non appare convincente. Bisognerebbe, infatti, simulare i risultati del percorso alternativo: 1) quello dell’élite liberale che avrebbe governato senza scosse un paese che si stava modernizzando; 2) oppure, più realisticamente, quello di una coalizione di cattolici e socialisti – subentrata alle élites liberali – che avrebbe governato, sempre senza scosse, un paese che si stava modernizzando.)
Un’altra spiegazione, più tecnica, è che la crescita economica non sia, a ben guardare, catturata dalle borse. Le imprese che «fanno la crescita» non sono sempre state quotate: lo sono solo dopo essere diventate importanti e quindi quando iniziano a crescere meno, ossia ancora quando gli azionisti fondatori vendono le quote di minoranza. Dunque la grande crescita delle imprese avviene prima che la borsa la catturi.
Non si sa, nella «concretezza storica», che cosa leghi davvero crescita economica e borsa azionaria. Mette conto – per fini «pratici» – sottolineare che il legame di «buon senso» non ha fondamento. Chi afferma «La Cina cresce molto più degli altri, ergo conviene investire», afferma una cosa che sembra sensata, ma che non regge l’analisi. Può darsi che la borsa cinese cresca, non è però detto che questo avvenga per il legame fra crescita dell'economia reale e ascesa dei corsi azionari.
Una nota finale. Dal punto di vista del capitalismo – un’economia decentrata, dove le innovazioni sono decise dai privati – e della sua legittimazione, la crescita della borsa è molto meno rilevante di quanto sembra. Infatti, il «vero» risultato del capitalismo è la crescita del reddito pro capite e la produzione di beni di qualità via via maggiore, piuttosto che l’ascesa dei corsi azionari. In ogni modo, la crescita dei corsi azionari che si è avuta è legata alle imprese «vincitrici», non a tutte le imprese quotate:
http://www.centroeinaudi.it/ricerche/joseph-e-vilfredo.html
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