Sceglie allora di seguire l’indice meno volatile, dando peraltro sempre un’occhiata a quello molto volatile. Questo ragionamento funziona se alla fine i beni volatili tanto salgono quanto scendono, per cui in media si annullano. Se, per esempio, il prezzo del petrolio schizza fino a 100 dollari, come avvenuto nel 1980 con il barile misurato in moneta di oggi, e poi cade subito dopo fino ad arrivare nel corso del tempo fino a 20 dollari, come avvenuto intorno al 2000, il ragionamento ha senso. Non ha senso, invece, se il prezzo del petrolio continua a salire regolarmente per molto tempo e se sale ad un tasso stabilmente superiore al tasso d’inflazione degli altri beni. Dal 1960 il ragionamento di dar retta soprattutto all’indice meno volatile ha funzionato. Infatti, nel tempo i due indici, come mostra il grafico di Econbrowser, hanno dato gli stessi risultati.
Uno potrebbe chiedersi se oggi si possa ragionare come in passato, ossia se abbia ancora senso seguire soprattutto l’indice meno volatile, quando le materie prime, energetiche, metallifere ed alimentari, salgono senza tregua. Un quesito molto serio. Se andassimo a chiedere agli esperti di materie prime che cosa ne pensano, questi direbbero che per la fine del 2008 si aspettano una certa flessione dei prezzi, per esempio si aspettano che il petrolio torni a circa 80 dollari. Non possiamo di conseguenza ancora assumere, se diamo retta agli esperti, che i prezzi delle materie prime saliranno in maniera costante e regolare nel corso del tempo. E quindi giocoforza torniamo all’indice meno volatile.
Negli ultimi tempi esso ha ripreso a salire. Per meglio catturare la sua dinamica, osserviamo la variazione dei prezzi a tre mesi e poi a sei mesi. Per esempio gennaio 2008 su ottobre 2007, oppure gennaio 2008 su luglio 2007. Ottenuta la variazione dell’indice privo di petrolio e cibo, calcoliamo il suo valore annuale, se a tre mesi moltiplichiamo per quattro, se a sei mesi per due. Otteniamo questi grafici, sempre di Econbrowser. Essi mostrano che l’inflazione sta chiaramente salendo.
ll tasso di inflazione privato dell’effetto dell’energia e del cibo ha quindi raggiunto il 3%. Il 3%, secondo Ben Bernanke, il capo della banca centrale statunitense, è il numero intorno al quale uno dovrebbe preoccuparsi per la crescita dei prezzi. Il tasso d’interesse praticato dalla banca centrale statunitense oggi è del 3%. Il tasso d’interesse praticato dalla banca centrale in termini reali è quindi zero.
In futuro la Federal Reserve potrebbe tagliare i tassi solo se l’economia andasse molto male, ossia se ci fosse un recessione che dura molti trimestri. In questo caso, infatti, l’inflazione potrebbe flettere ed i tassi, pur inferiori, non diverrebbero inflazionistici. Se, invece, non andasse molto male, ossia se ci fosse una recessione che dura un paio di trimestri, o nessuna recessione, la Federal Reserve dovrebbe essere, per le statistiche che abbiamo appena visto sull’inflazione, poco propensa a tagliarli. In questo caso, infatti, l’inflazione non dovrebbe flettere e quindi i tassi inferiori diverrebbero pericolosamente inflazionistici.
Le cose sembrano disporsi per una politica monetaria molto più all’“europea”. Una crescita che rallenta ed un’inflazione che risale non spingono la banca centrale europea a tagliare i tassi. Questo le lascia un margine di manovra, nel caso in cui l’economia rallentasse troppo. I tassi inferiori, infatti, non sarebbero a quel punto pericolosamente inflazionistici.
La conclusione pratica del ragionamento è semplice. Quelli che pensano che dalle banche centrali sprizzi una energia divina che tutto avvolge e tutto risolve, solo che abbassino con decisione i tassi, e che di conseguenza aspettano la fine imminente della crisi in corso con il ritorno della crescita perpetua dei prezzi delle azioni, dovrebbero preoccuparsi. L’inflazione in crescita potrebbe rovinare l’arrivo imminente del finale glorioso, la “parusia” finanziaria.
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