L'accentuata debolezza del dollaro di questi ultimi tempi è interpretata da molti in chiave positiva, come l’ennesima prova che stanno sbocciando i germogli di ripresa: i famosi green shoots. Si vendono i dollari per comprare attività rischiose – come le azioni dei paesi in via di sviluppo e le materie prime, perché l’economia mondiale si sta riprendendo. Un’interpretazione alternativa asserisce che, anche senza green shoots, il dollaro ha tutte le ragioni per essere debole.

Negli ultimi quarant’anni il tasso di cambio del dollaro nei confronti delle monete dei maggiori paesi ha registrato un andamento etichettabile come «semi-prevedibile». Il dollaro, infatti, si è «abbastanza» discostato dal cambio nominale corretto per la parità del potere d’acquisto per gran parte del tempo, ma in cinque periodi se ne è discostato moltissimo. Nel 1985 e 2002 è stato «sopravalutato»; nel 1975, nel 1980 e nel 1990 è stato «sottovalutato». Stiamo parlando del cambio che tiene conto dei differenziali d’inflazione alla produzione dei diversi paesi. Se l’inflazione negli Stati Uniti è del 10% e in Europa è del 5%, le merci prodotte negli Stati Uniti, per essere competitive, devono essere scambiate con un dollaro che vale meno – proprio come accadeva all’Italia prima dell’adozione dell’euro: l’inflazione italiana era maggiore e perciò la lira si svalutava.

Nel grafico – di Bank Credit Analyst – la linea blu è il cambio del dollaro che tiene conto della parità del potere d’acquisto. Le linee tratteggiate sono lo scostamento del +10% e –10% dalla linea blu. La linea rossa è il cambio effettivo a pronti. Come si vede – primo quadrante in alto – il dollaro è leggermente sopravalutato:


il dollaro, la bpc ed i differenziali di interesse
il dollaro, la bpc ed i differenziali di interesse
il dollaro, la bpc ed i differenziali di interesse


Seguendo questa linea di ragionamento, il dollaro non ha motivo di salire. Ampliando il ragionamento per tener conto dell’accumulazione di debito estero e dei differenziali di interesse, lo stesso grafico mostra cose interessanti. Il deficit della bilancia dei pagamenti correnti statunitense – secondo quadrante – si è ridotto, per effetto della recessione del minor prezzo del petrolio, ma resta comunque in campo negativo. Gli Stati Uniti debbono importare capitali se vogliono tenere stabile il dollaro. Il terzo quadrante del grafico mostra che i differenziali di interesse sui titoli di stato a breve termine – quelli che si discostano poco dai tassi praticati dalle banche centrali – fra gli Stati Uniti e gli altri paesi sono nulli.


Conclusione: il dollaro, da un punto di vista industriale, è appena sopravalutato. Se vogliono che resti stabile, gli Stati Uniti, in presenza di un disavanzo con l’estero, debbono importare capitali. Meno di quanto facessero in passato, ma debbono importarli: perciò, debbono alzare i rendimenti. I maggiori rendimenti, tuttavia, fermerebbero la ripresa. Dunque gli Stati Uniti possono contare solo sulle banche centrali che decidono di comprare i loro titoli di stato anche con differenziali di rendimento nulli. Ultima considerazione: il dollaro, oltre che appena sopravalutato da un punto di vista industriale, ha un cambio che tiene se le banche centrali lo sostengono.