Anche in economia le date sono importanti. Da quando, nel 2006, Evo Morales ha iniziato la lunga serie di nazionalizzazioni che ha scandito la storia recente della Bolivia, il primo maggio è stata la data scelta per gli espropri più clamorosi.
Per riportare sotto il controllo statale Electropaz ed Elfeo, due aziende elettriche controllate della spagnola Iberdrola, Morales non ha però atteso la festa dei lavoratori: il decreto di nazionalizzazione è stato firmato il 29 dicembre scorso, l’ultima data utile dell’anno più duro per l’economia spagnola dalla fine del franchismo ad oggi. Morales non poteva attendere oltre: la decisione è stata presa mentre il parlamento boliviano discuteva una legge per garantire la sicurezza giuridica per gli investimenti esteri. Ironia della sorte, l’introduzione della norma era stata fortemente caldeggiata dal governo Rajoy e da Re Juan Carlos.
Quella di Iberdrola è stata la terza nazionalizzazione subita da un’impresa spagnola in America Latina nell’ultimo anno, la seconda in Bolivia dopo quella di Transportadora de electricidad SA, una filiale di Red Eléctrica española, annunciata il 1° Maggio. Poche settimane prima, era toccata la stessa sorte a Ypf, la principale compagnia petrolifera argentina, che fino alla legge speciale voluta dal presidente Cristina Fernández Kirchner era controllata al 51 per cento da Repsol.
Il valore degli espropri boliviani è poca cosa comparato con quello subito dall’azienda petrolifera che dalla controllata argentina riceveva oltre un quinto del fatturato complessivo e il 35 per cento dell’Ebitda (margine operativo lordo). In seguito alla nazionalizzazione di Ypf, Repsol ha perso il 30 per cento del proprio valore in borsa e ha subito il downgrade dalle tre agenzie di rating. L’azienda di idrocarburi iberica, come pure Red eléctrica, ha fatto ricorso contro le decisioni dei governi sudamericani ma gli accordi per ricevere un indennizzo sono ancora in alto mare.
Fare affari in Sudamerica comporta una serie di rischi. Non è la prima volta che le multinazionali di Madrid perdono le proprie consociate dall’altra parte dell’Atlantico. Tanto per citare i casi più importanti avvenuti negli ultimi anni, era già accaduto in Bolivia a Repsol con l’esproprio di Andina; in Argentina al tour operator Marsans con la nazionalizzazione della compagnia aerea di bandiera e al fondo pensionistico Consolidar precedentemente controllato da Bbva; in Ecuador ancora a Repsol con la cessazione unilaterale dei contratti petroliferi e in Venezuela con la vendita obbligata (preceduta da un tentativo di nazionalizzazione) del Banco de Venezuela, filiale locale di Santander.
Non basta la retorica populista dei leader bolivariani per spiegare l’ultima ondata di espropri - tre in appena otto mesi - che sembra aver preso di mira esclusivamente le aziende a capitale spagnolo. Il caso argentino è il più emblematico: il governo Kirchner ha concluso un partenariato con l’americana Chevron per lo sfruttamento dell’immenso giacimento di shale gas e petrolio nell’area di Vaca Muerta, in Patagonia, che era stato scoperto da Ypf quando questa era ancora sotto il controllo di Repsol.
Nonostante la scoperta di un giacimento stimato in 23 miliardi di barili, l’Argentina nell’ultimo biennio ha aumentato la propria dipendenza dall’estero per l’approvigionamento di idrocarburi (provenienti per lo più dalla sezione di Ypf boliviana, anch’essa di proprietà Repsol). Secondo il presidente argentino, Repsol non aveva investito il capitale e la teconologia necessari (stimato in 15miliardi di dollari) per mettere a regime in tempi rapidi i pozzi di Vaca Muerta. Di qui la decisione di rivolgersi alla multinazionale statunitense.
Mentre la crisi sta affossando l’economia in patria, anche la posizione e l’autorevolezza delle aziende spagnole nel mondo si va ridimensionando. E questo avviene in un momento in cui multinazionali iberiche dipendono largamente dalle attività all’estero: nel 2011, il 61 per cento del fatturato delle aziende più capitalizzate di Spagna, quelle che compongono l’Ibex 35, è stato generato fuori dai confini nazionali, il livello più alto mai registrato. Di questo 61 per cento, i due terzi provengono dagli investimenti in America Latina. E, anche se mancano ancora dei dati ufficiali, nel 2012 questa tendenza dovrebbe essere confermata. Il caso più emblematico è quello dei principali istituti di credito. Durante l’ultimo esercizio (2011), cinque dei sette milioni di profitti realizzati da Santander provengono dalle attivitità latinoamericane, con il solo Brasile a generare più guadagni dell’intera Europa. Numeri simili si ritrovano nei bilanci dell’altra grande banca iberica, il Bbva, più che mai dipendente dall’andamento dell’economia messicana. Le difficoltà incontrate in patria, unite alla necessità di rientrare nei parametri di Basilea 3, hanno però spinto gli istituti spagnoli a cedere parte delle attività più redditizie per aumentare il capitale consolidato nel Vecchio continente, come accaduto quest’anno con i fondi pensione colombiani e messicani di Bbva.
Secondo i dati della Commissione economica per l’America Latina dell’Onu, la Spagna rimane il secondo partner commerciale in America Latina dietro agli Stati Uniti. Questa posizione è però dovuta a una rendita di posizione accumulata durante gli anni ‘90 e i primi anni del 2000, un’epoca ribattezzata “seconda colonizzazione”, in cui le imprese spagnole hanno approfittato delle opportunità derivanti dalle massicce privatizzazioni messe in atto dai governi locali. Nel 2011, il totale degli investimenti spagnoli in America Latina raggiungeva a malapena i 12 miliardi di dollari. Nel ’99, erano stati oltre 40.
Oggi le imprese spagnole non hanno più la forza per ampliare la propria posizione sull’altra sponda dell’Atlantico, nonostante proprio le attività d’oltreoceano generino buona parte dei profitti. E sono proprio queste risorse quelle che stanno permettendo alle aziende spagnole di continuare a funzionare in patria. Questa debolezza strutturale toglie ogni forza di contrattazione alle imprese iberiche: in seguito alle nazionalizzazioni di Ypf e Red eléctrica il direttore ricerche della Camera di commercio nazionale, Juan José de Lucio, aveva minacciato un blocco degli investimenti destinati ai Paesi retti da governi bolivariani (Bolivia, Venezuela e Argentina in testa), suggerendo di reindirizzarli verso i più affidabili Paesi del Pacifico (Perù, Brasile, Messico e Colombia). L’arma del ricatto spagnolo è però spuntata: il freno agli investimenti dipende dalla mancanza di liquidità e dallo scarso accesso alle linee di credito, più che da una decisione politica. Per converso, anche i Paesi retti da governi protezionisti e populisti non hanno nessuna difficoltà a trovare nuovi capitali, dato che l’imponente crescita economica del Continente nell’ultimo decennio ha risvegliato gli appetiti degli investitori di tutto il globo.
Che i rapporti di forza si stiano invertendo è emerso chiaramente durante il vertice iberoamericano di Cadiz del novembre scorso. Questi incontri annuali, creati dal governo di Madrid in occasione del cinquecentenario della scoperta dell’America, per vent’anni sono stati la piattaforma utilizzata dalle imprese spagnole (e portoghesi) per lanciare la conquista del continente sudamericano. L’ultimo summit è però stato disertato da metà dei capi di Stato e la Spagna, per bocca di Re Juan Carlos, ha invocato investimenti e sostegno economico dalle ex-colonie. Dall’anno prossimo il vertice perderà la tradizionale cadenza annuale e alcuni commentatori hanno suggerito che, quella tenutasi in Andalusia, potrebbe essere stata l’ultima edizione del summit.
Un appuntamento di cui gli stati latinoamericani potrebbero non sentire la mancanza, preoccupati piuttosto dalle difficoltà del Mercosur e dalla nascente Alleanza del Pacifico, un ponte commerciale tra l’Estremo Oriente e i Paesi sudamericani. L’interscambio tra America Latina ed Asia è in crescita esponenziale e quest’anno la Cina è diventata il primo partner commerciale del Brasile, soppiantando gli Stati Uniti. Anche per il Sudamerica, nel prossimo avvenire l’asse principale degli scambi sarà il Pacifico, non più l’Atlantico.
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