Il tema della volatilità, in alcuni momenti ampiamente dibattuto e sviscerato, è oggi passato decisamente in secondo piano. Per memoria, trattasi della misura dell’intensità della variazione dei prezzi di una attività finanziaria, efficacemente definita come l’indicatore del nervosismo dei mercati. La mancanza di nervosismo riduce la volatilità e, parallelamente, l’interesse finanziario e mediatico per l’argomento.
Premessa. Il nervosismo dei mercati si esprime in due forme di volatilità: quella implicita e quella effettiva. La prima è misurata sui prezzi delle opzioni a vendere e comprare azioni, la seconda sui prezzi effettivi delle azioni. La volatilità implicita calcolata sulle opzioni registra i comportamenti degli investitori per definizione più instabili in quanto alla ricerca di plusvalenze sulle intenzioni di acquisto e vendita e non sulle effettive vendite o acquisti. Quella effettiva è più significativa di quella implicita perché misura il comportamento reale degli investitori nel volersi disfare o tenere o acquistare titoli azionari.
Aggiungiamo che la volatilità tende ad essere elevata nel fasi di discesa dei mercati azionari e nelle fasi di forte ascesa mentre è bassa quando i mercati salgono poco. Il primo grafico è una conferma statistica, misurata dal 1970 ad oggi, di un fenomeno percepito intuitivamente dall’osservazione delle oscillazioni dei prezzi azionari. Inoltre, il fenomeno non riguarda solo la Borsa americana, ma identicamente quella tedesca e quella giapponese.
Ad esempio, con cadute degli indici del 30% la volatilità si è collocata su valori prossimi al 35%. Cadute percentuali minori hanno generato livelli di volatilità decrescenti. Con indici piatti il valore è stato storicamente tra il 15% e il 20%, leggermente superiore rispetto a mercati in crescita del 10% ed in linea con le fasi di forte crescita dei mercati azionari tra il 20% e il 30%. Considerando la situazione attuale si evidenzia come la volatilità giapponese è in linea con la variazione storica dell’indice mentre quella tedesca e americana sono decisamente più basse rispetto all’esperienza del passato.
La seconda verifica statistica racconta che storicamente la volatilità implicita è stata sempre maggiore di quella effettiva, come del resto ci si sarebbe aspettato. Il secondo grafico indica un valore medio del rapporto tra volatilità implicita ed effettiva dal 2000 ad oggi intorno a 1,3. Ciò significa che gli investitori instabili hanno generato mediamente il 30% in più di volatilità rispetto agli investitori stabili.
Il fatto singolare è che oggi il rapporto tra le due volatilità segnala che gli investitori instabili – quelli delle opzioni - sono decisamente più nervosi degli investitori stabili – quelli delle azioni – nella misura di un livello di nervosismo intorno al 70/80% rispetto al 30% medio del periodo. Questo fenomeno vale sia per il mercato americano che per quello europeo e mostra oggi valori massimi rispetto a tutto il periodo considerato, dal 2000 ad oggi. Una altra interessante informazione riguarda la coincidenza delle due volatilità realizzatasi soltanto all’apice della crisi nel 2009 quando, evidentemente, il livello di nervosismo degli investitori instabili e stabili si è allineato in virtù dell’eccezionalità e profondità della crisi finanziaria.
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