Con santa pazienza e un pizzico di humor, Alberto Mingardi spiega l’ABC dell’economia di mercato a chi non ne avesse mai comprese appieno le caratteristiche, le virtù e i limiti. Lo fa con un libro piacevole, dal tono leggiadro e a tratti scanzonato, in cui sono abilmente mixati grandi filosofi e grande cinema, testi di economia e canzonette. “L’intelligenza del denaro” (334 pagine, Marsilio) è un saggio alla portata di tutti, particolarmente utile ai fini pedagogici, in un’epoca di crisi caratterizzata da indignazione di massa e tesi politiche irrazionalistiche.

“Il mercato non è la Spectre” spiega Mingardi ai sostenitori delle teorie cospirative, bensì un processo in continua trasformazione, in cui tutti i fattori sono interdipendenti; il denaro è uno strumento intelligente, che rende gli individui “liberi di scegliere” acquistando dei beni, dice ai pauperisti. L’autore elogia la libera concorrenza e sottolinea l’importanza dei meccanismi di formazione dei prezzi, che sono preziosi “indicatori economici”.

Da un punto di vista squisitamente liberale, è praticamente impossibile non condividere queste e moltissime altre affermazioni del direttore dell’Istituto Bruno Leoni. E’ però doveroso aggiungere che una simile impostazione costituisce, al contempo, il principale limite dell’opera. L’autore si dilunga in svariati esempi, molti dei quali per la verità piuttosto banali e non sempre calzanti (lo stipendio del calciatore Ibrahimovic, il costo dei vini da collezione, lo studio di psicoterapia sopra la lavanderia rumorosa). Egli loda la libertà di commercio contro tutti i protezionismi, sottolinea la necessità della certezza del diritto “anche a lungo termine”, difende la libertà economica ma ammette che “ci sono casi in cui il ricorso ad autorità di regolamentazione è inevitabile”. Meno male. Tuttavia “l’antitrust è spesso un preconcetto ideologico ostile alla grande industria”.

A tutta la problematica ambientale, nel libro, sono dedicate esattamente 7 pagine (da 107 a 114) anche qui con esempi poco significativi, come quello dell’inquinamento a Milano. “Nel corso dell’ultimo secolo, il progresso ha reso meno inquinante l’industria” si legge – ma a seguito di stringenti e costose normative imposte dal decisore politico, non certo dal mercato, viene fatto di osservare.

La parola “guerra” viene citata una sola volta in tutto il volume, incidentalmente, per ricordare che i due conflitti mondiali sono stati preceduti da una escalation protezionistica. Poiché le risorse naturali sono scarse per definizione, “i potenziali conflitti dovuti alla scarsità sono un fatto della vita, come il fuoco che scotta”. Sulle spese statali per gli armamenti e sulle conseguenze per l’economia di mercato, neanche un accenno. Anche le diseguaglianze sono un fatto e “soffrire fa parte della condizione umana”, afferma Mingardi.

La libertà di commercio ha determinato negli ultimi decenni un grande progresso nelle condizioni di vita dei poveri in Asia, in particolare in Cina, mentre lo stesso non è accaduto in Africa, destinataria degli aiuti allo sviluppo. Sulle condizioni umane, politiche, civili, sociali e ambientali dell’ascesa della potenza cinese, Mingardi non si sofferma, si limita a osservare che “chi lamenta la concorrenza sleale, in realtà semplicemente soffre la concorrenza”. “Viviamo meglio di tanti anni fa… Lo sviluppo economico libera dalla povertà” è la scontata conclusione del ragionamento.

Per quanto concerne il Welfare State, da coerente liberista l’autore osserva che la mano pubblica dovrebbe limitarsi a rispondere alla domanda, invece di erogare anche i servizi, compito quest’ultimo che potrebbe essere assolto dai privati, in un regime di libera competizione. Altrimenti la burocrazia, in itinere, spreca molte risorse.

Sulla crisi del biennio 2007-2008, Mingardi contesta radicalmente la “falsa narrazione del mercato come Dio che ha fallito”. La crisi dei subprime è stata scatenata da valutazioni errate sulla solvibilità dei destinatari dei prestiti; la Fed di Alan Greenspan ha offerto un fiume di denaro facile, cioè a tassi di interesse troppo bassi, diminuendo l’attenzione per i possibili rischi; le tre principali agenzie di rating agiscono in regime di oligopolio, mentre anche in questo campo servirebbe maggiore concorrenza; il governo americano ha indotto in errore banche e operatori, alterando gli indicatori verso investimenti in edilizia rivelatisi fallimentari. Dunque le maggiori responsabilità, anche in questo caso, ricadono sul decisore pubblico e non sull’economia di mercato. “Questo è il grande argomento a favore della libertà economica ed esce rafforzato, non indebolito, dalla crisi…. Noi abbiamo bisogno dei mercati precisamente perché i mercati falliscono… E’ utile fare affidamento su un’intelligenza collettiva, su un contesto che consente di sbagliare e di apprendere dagli errori… Se c’è qualcosa che ha fallito, nella crisi finanziaria, è la fiducia nella lungimiranza e nella superiore conoscenza di pochi, saggi, colti avvertiti analisti finanziari, pubblici o privati che fossero.”

Nell’ultimo capitolo, Mingardi attacca lo Stato italiano “senza limiti”, caratterizzato da “un’economia fascista”. Egli cita in particolare un celebre discorso parlamentare di Giuliano Amato del ‘93, dopo il referendum che aboliva il finanziamento statale dei partiti: “E’ un dato di fatto che il regime fondato sui partiti, che acquisiscono consenso di massa attraverso l’uso dell’istituzione pubblica, nasce in Italia con il fascismo e ora viene meno”. Dopo di che, il direttore dell’Istituto Bruno Leoni esprime giudizi molto severi nei confronti di Silvio Berlusconi, il politico che ha più volte promesso una rivoluzione liberale e che poi, “per amore del consenso… di tutti i camerieri al servizio degli elettori è stato di gran lunga il più abile”. In conclusione, l’autore pone “una questione prepolitica, un problema culturale”: la definizione del limite alle possibilità di intervento dei pubblici poteri.

Anche il tono morale di quest’ultima affermazione rimanda alla principale critica al libro, per molti aspetti ottimo, di Alberto Mingardi. “L’intelligenza del denaro” spiega bene tante cose ai non liberali; ma non riesce a fornire alla cultura liberale proposte adeguate, valide e attuali, per le nuove drammatiche sfide del mondo contemporaneo.