J.P. Morgan è una banca americana molto importante. Nel primo trimestre di quest’anno ha comunicato di aver perso oltre 2 miliardi di dollari (probabilmente 3, forse 5) in operazioni su prodotti derivati, così come già successo ad altre banche in periodi più o meno recenti. Ricordiamo Barings, la banca della regina d’Inghilterra fallita nel 1990 per una perdita di oltre 800 milioni di sterline e venduta ad un'altra banca per 1 euro, Société Générale che nel 2008 perse 5 miliardi di euro e UBS che perse oltre 2 miliardi di dollari a fine 2011. Le cause di questi vuoti improvvisi ed enormi sono le attività di trading (negoziazione) su mercati sempre particolari (in questo caso i CDS, Credit Default Swaps, premi assicurativi contro il rischio di fallimento di 130 tra le maggiori società americane).
In condizioni normali queste attività sono fonti di guadagni meno spettacolari ma costanti e tali da più che compensare le pesanti perdite occasionali, altrimenti questa pratica sarebbe da tempo sparita. Per inquadrare meglio la dimensione del problema, vediamo qualche numero (dalla presentazione di dicembre 2011 del presidente J. Dimon). J.P. Morgan ha 130 miliardi di patrimonio. Circa il 10% è utilizzato dal CIO (Chief Investment Office, l’unita che ha generato le perdite e che gestisce 375 miliardi di dollari). Normalmente questa unità genera tra i 500 milioni e 1 miliardo di dollari di utili annui. La perdita del trimestre rappresenta, quindi, gli utili generati mediamente negli ultimi 5 anni ed è in grado di distruggere fino ad un terzo del patrimonio assegnato all’unità ma non è tale da intaccare minimamente la solidità del gruppo.
L’aspetto che rende questo episodio forse più decisivo di altri è l’accelerazione della frequenza (solo sei mesi dall’ultimo e quattro anni dal penultimo) e, conseguentemente, la sensazione che i meccanismi di protezione da questi rischi siano perlomeno insufficienti. La metodologia utilizzata per controllare il rischio di queste operazioni si chiama VaR (Value at Risk), sviluppata proprio da J.P. Morgan negli anni ‘90: in breve, è un calcolo che stabilisce qual è la probabilità di subire perdite giornaliere considerando l’andamento storico “normale” dei rendimenti dei titoli in portafoglio. Essendo un calcolo probabilistico basato su ciò che è successo normalmente nel passato esclude per definizione le situazioni estreme.
I problemi che si pongono sono diversi. Innanzitutto, la base logica della normalità statistica può mettere in crisi sia la modalità di utilizzo che la natura stessa del VaR. La necessità di modificare la metodologia di analisi e contenimento del rischio sta emergendo prepotentemente, ad esempio attraverso altre metodologie che tengano conto, anziché escludere, le perdite anomale. Inoltre, data la particolare e legittima attenzione che oggi si pone sulla definizione di rischio, alla luce della difficoltà rispetto al passato di definire in maniera univoca questo parametro, la vicenda delle perdite di J.P. Morgan pone alcuni quesiti all’industria dell’intermediazione finanziaria, già provata dall’esperienza dei titoli tossici e dalla crisi dei debiti pubblici.
In particolare, il lavoro dei risk manager (coloro che oggi sono fortemente richiesti proprio per le loro competenze in materia di analisi e controllo dei rischi) è diventato ancora più complesso per la difficoltà derivante dalla crescente illiquidità (causa principale delle perdite di J.P. Morgan e della difficoltà a quantificarle) che rende la definizione del rischio ancora più complessa. In sostanza, l’evento in sé non è tale da creare rischi sistemici, sia per l’entità che per la solidità del gruppo ma, al di là degli effetti mediatici, l’accelerazione della frequenza di questi fenomeni è sintomo della vischiosità e volatilità dei mercati che, una volta, era confinata solo in alcuni luoghi (le azioni, ad esempio) mentre adesso investe tutte le attività finanziarie.
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