La Banca Mondiale ha annunciato un prestito tra i 3 e i 5 miliardi di dollari l’anno all’India, fino al 2017. Si tratta del primo atto del nuovo presidente dell’istituto, Jim Yong Kim – medico, americano di passaporto, sudcoreano per nascita – il quale si è ripromesso di dare battaglia alla povertà nel Sud del mondo.

In ordine temporale, l’iniziativa è l’ultima che la World Bank tenta di avviare dopo quattro anni di costante crescita dei prezzi dei generi alimentari di prima necessità. Riso, grano, zucchero, mais e soia. Dal 2009 a oggi, nessuno di questi quattro prodotti ha mostrato indici di aumento che non siano stati a doppia cifra. Fame nel mondo! Un termine gonfio di banalità. E al suo fianco “sorella povertà”. Il tema, in riferimento ai tempi più recenti, sta diventando oggetto di studi e denunce allarmistiche. Alcuni osservatori hanno azzardato accostamenti bizzarri. Per esempio affiancando il trend odierno alla carestia che colpì l’Irlanda negli anni Quaranta dell’Ottocento. Altri si sono limitati a lamentare la condizione di sottomissione schiavistica alla quale il Sud del mondo sarebbe costretto per colpa dei Paesi ricchi. E appunto perché si scade nella mediocrità, l’India svolge il ruolo di protagonista nel discorso.

Parlare di aiuti della World Bank in favore di Delhi significa tornare su un argomento lungamente toccato. D’altra parte, non è colpa degli analisti se i governi ricevono sempre le stesse critiche. Sono le scelte delle istituzioni a rivelarsi, a priori, inconcludenti. Il prestito della Banca Mondiale offre l’occasione per capire il circolo vizioso che caratterizza questa “finanza della pietà umana”. Il paradigma è sempre lo stesso. Di solito il Paese povero assume un comportamento che porta l’interlocutore, potenziale finanziatore, a un’esasperazione crescente, al punto da concedere il prestito. Il governo richiedente mostra muscoli numerici (spesso gonfiati), provoca crisi diplomatiche, promette di essere economicamente in fase di guarigione e quindi firma dei “pagherò” politici nei quali il creditore ci casca. O fa in modo di cascarci per ragioni anch’esse politiche. Quasi nella totalità dei casi, si tratta di finanziamenti a fondo perduto. Chi li concede lo sa, ma preferisce non protestare. Un prestito senza ritorno di moneta sonante significa comunque controllare il debitore in altri settori. Concessioni petrolifere e alleanze strategiche, per esempio. Si tenga conto che il creditore, oltre a essere beffato in termini di prestito, riceve feroci critiche alla propria immagine. I finanziatori occidentali infatti sono sempre visti alla stregua di avidi strozzini. La logica – si sta facendo esclusivamente un discorso di questo tipo – fa pensare che gli scrupoli manchino a entrambe le parti. Dal momento che i prestiti in questa forma si è visto che non funzionano, non si capisce perché vengano continuamente richiesti e concessi. Banalità per banalità, forse c’è qualcosa dietro. Magari l’intenzione bilaterale di tenere in moto la macchina della pietà umana che è di per sé un volano monetario.

Per tranquillizzare chi pretende spiegazioni di maggiore concretezza, si può parlare anche dei numeri. Nel caso India-World Bank, va detto che se anche il prestito venisse elargito al massimo delle disponibilità – 5 miliardi di dollari per quattro anni

– dei 20 miliardi complessivi ottenuti, Delhi si troverebbe effettivamente in mano il 50% della somma. Il resto infatti ha promesso di destinarlo ai Brics. Almeno stando agli ultimi impegni internazionali presi dal governo di Delhi.

Fortunatamente la vicenda ha comunque un aspetto positivo. La Banca Mondiale sostiene che circa il 60% di questi fondi finanzierebbe i progetti sostenuti dai governi locali. Mentre un altro 30% sarebbe destinato agli Stati federali indiani con i redditi più bassi e minori servizi pubblici. Distribuzioni fatte però senza tener conto degli accordi indiani con gli altri Brics. A ogni modo, l’auspicio è che, entro il 2030, l’India intacchi il tasso nazionale di povertà, riducendolo al 5,5%, contro quello attuale che è circa il 28%.

Chi conosce la realtà indiana, non quella che emerge da testi e analisi, si può domandare quali siano i criteri per il recupero di questi dati. Nelle strade di Delhi, Calcutta e Mumbay c’è chi vive senza un tetto, un reddito, un nome. Esseri viventi al limite della soglia di umanità, di cui le istituzioni ignorano l’esistenza. E certo non si sprecano per classificarli. Com’è possibile avere un censimento così dettagliato del tenore di vita del subcontinente quando la stessa Delhi scrive sulle sue tabelle “hic sunt leones”? Nel 2010, si è tenuta l’ultima indagine demografica nel Paese. L’evento è durato un anno e mezzo. Raccolta e spoglio dei dati compresi. Logica l’elevata variabilità dei numeri. Tenendo conto delle sacche di arretratezza e della scarsa tecnologia a disposizione, non ci sentiamo in grado di ritenere attendibili i dati sulla povertà. Gli indiani indigenti possono essere più di quel 28%. O anche meno. Nessuno può realisticamente dirlo.

Ecco allora il vantaggio (piccolo piccolo) dell’iniziativa della Banca Mondiale. Il prestito in teoria dovrebbe costringere gli indiani a farsi i conti in casa. Quanti sono davvero i poveri? Dove vanno i contributi che anche altri creditori occidentali, vili usurai, concedono loro? E via discorrendo. Trasparenza. Al netto di imprevisti e caos che regnano sovrani nel Paese, il progetto avrebbe questo come obiettivo. È poco, ma è meglio di nulla. Sorella povertà resterebbe certamente in India. Ma almeno si avrebbe un quadro clinico del male che provoca a una nazione che si atteggia a essere una delle prime superpotenze mondiali. L’India: la più grande democrazia del pianeta, con un arsenale atomico e un’economia che cresce. E con una massa di poveri che resta ingestibile.