Di seguito pubblichiamo il nostro intervento su «La crisi globale in corso e l’Italia», tenuto durante un seminario.

All’origine delle cose

In Asia, dopo la sconfitta in Vietnam, gli statunitensi, per fermare il comunismo, cambiano strategia: incomincia quella del «make trade, not war». I paesi asiatici cominciano a esportare i propri beni negli Stati Uniti senza barriere doganali. Invece, i beni statunitensi restano penalizzati dalle barriere doganali asiatiche. Segue che i paesi asiatici incominciano a esportare – combinando una manodopera molto disciplinata e poco costosa con la tecnologia occidentale – e a modernizzarsi. In pochi decenni, una quantità smisurata di persone esce dalla povertà. Il saldo commerciale asiatico è positivo – i dollari, che restano in mano agli esportatori asiatici, sono più numerosi dei dollari chiesti dagli importatori asiatici. Per evitare che le monete asiatiche, per un eccesso di dollari in offerta, si apprezzino, così frenando la modernizzazione, le banche centrali asiatiche comprano i dollari, sotto forma di titoli del Tesoro statunitensi. Nei decenni, ne comprano una quantità smisurata. Il comunismo è meno forte di quanto non fosse negli anni settanta – esso si perpetua nella forma del partito – ma non è più un’ideologia che dilaga.

In Europa, con la caduta dell’Unione Sovietica, molti pensano che possa terminare la tutela statunitense, che ha impedito all’orso russo di dilagare. L’euro è la moneta con cui costruire un enorme mercato finanziario, che, grazie alla sua dimensione, alla lunga potrà diventare indipendente dalla politica economica degli Stati Uniti. L’euro diventa così la moneta di un numero crescente di paesi. Ormai, gli europei non sono più disposti in tanti piccoli stati davanti alla potenza militare dell’Unione Sovietica, che è scomparsa, e nemmeno sono più tanti piccoli stati, ciascuno con la propria moneta, davanti alla potenza finanziaria degli Stati Uniti. L’economia europea è grande quanto quella statunitense. A differenza degli Stati Uniti, l’Europa dell’euro non è in disavanzo commerciale con il resto del mondo e dunque non ha bisogno di importare capitali dal resto del mondo. L’euro, moneta di un’area ricca e che non deve importare capitali, sembra in grado di sostituire in parte il dollaro come moneta di riserva mondiale. Dalla monarchia del dollaro alla diarchia.


La crisi e i bilanci pubblici
 
Ecco il contesto prima che la crisi scoppiasse. 1) Gli Stati Uniti, che avevano la propria crescita finanziata dall’Asia, e l’Asia che finanziava la crescita statunitense per alimentare la propria modernizzazione. 2) L’Europa, che s’integrava con una moneta che aiutava gli investimenti e la crescita. (Grazie all’euro, infatti, il costo del denaro per le imprese e per le famiglie, ma anche per gli stati – per esempio, il costo del debito pubblico italiano si è dimezzato – è diventato più basso di quanto altrimenti sarebbe stato).

Poi scoppia la crisi. La crisi si riverbera subito sui bilanci pubblici, perché le entrate fiscali diminuiscono ovunque, mentre le spese sono costanti nel caso dell’Europa, che ha in partenza un sistema di protezione diffuso, oppure crescono, come avviene nel caso degli Stati Uniti, che espande durante le crisi il proprio sistema di protezione – quali sono ad esempio i sussidi di disoccupazione. I deficit pubblici sono finanziati con l’emissione di obbligazioni, e quindi i debiti pubblici aumentano. I debiti aumentano sia in termini assoluti sia in rapporto al reddito nazionale. Per molti paesi poi, si ha una crescita notevole del debito pubblico.

Sorge il problema di come portarlo sotto controllo. Come si fa? Con un bilancio pubblico in attivo prima del pagamento degli interessi. Il saldo del bilancio pubblico prima del pagamento degli interessi si chiama «primario». Il saldo primario deve essere in surplus per stabilizzare il debito. Seguendo i conti del Fondo Monetario ( = qual è la correzione del bilancio pubblico spalmata su un decennio che porta il debito pubblico a essere pari al 60% del reddito nazionale?) si ha che la Germania deve variare il proprio bilancio pubblico del 3%, l’Italia del 4%, la Francia del 5%, la Grecia, gli Stati Uniti, la Spagna e la Gran Bretagna oltre l’8%. Il paese messo di gran lunga peggio è il Giappone, con un numero superiore al 10%.

L’Italia è relativamente ben messa, perché non emette debito prima di pagare il debito accumulato. L’Italia sarebbe mal messa se il costo del debito salisse in tutto il mondo. A quel punto il costo del debito italiano salirebbe molto, perché il debito di partenza è cospicuo. Un paese come la Grecia deve varare delle politiche fiscali di rientro, ma queste riducono la crescita del paese. La minor crescita greca è minor domanda d’importazioni. In Europa il grosso degli scambi è fra paesi europei, non con il resto del mondo. Dunque gli altri paesi europei esportano meno e quindi crescono meno, rendendo più difficile la gestione del proprio debito. Alla fine è molto mal messa la Grecia – la cicala – ma lo sono anche, seppur in misura di molto minore, gli altri paesi – le cosiddette formiche. Si potrebbe così creare un’Europa a due velocità, entrambe però ridotte. Quanto maggiori sono i rendimenti richiesti per sottoscrivere i debiti pubblici, tanto più difficile è controllare i debiti medesimi. Da un certo punto in poi, con rendimenti per sottoscrivere il debito pubblico «eccessivi», abbiamo la «profezia che si autoavvera». Ossia, i debiti non vanno sotto controllo, perché si richiedono rendimenti che non possono portarli sotto controllo. E dunque la profezia che non erano sotto controllo è confermata.
 

Il senso degli interventi
 
Da qui gli interventi pubblici degli ultimi tempi. Le autorità europee si sono mosse con lentezza – sono delle petroliere – nel prendere le decisioni. Gli organismi elettivi hanno dei tempi diversi da quelli delle case finanziarie – che sono dei motoscafi. Il bivio decisionale per le autorità europee era: 1) lasciar cadere le cose e dunque lasciare il mondo avvitarsi in una spirale deflazionistica; 2) fare di tutto per salvarlo dalla spirale per poi vedere che cosa fare, una volta passata la parte peggiore della crisi. Si noti che negli Stati Uniti e in Gran Bretagna nel 2008 e 2009 fu scelta l’opzione 2. La strada intrapresa per gli interventi – 500 miliardi di euro – dovrebbe fermare le vendite dei titoli del debito dei paesi poco virtuosi. Questi 500 miliardi vanno sommati ai 100 che l’Europa aveva deciso di erogare alla Grecia. Infine, la Banca Centrale Europea, se necessario, comprerà – sul mercato, quindi non in sede di emissione, perché così facendo violerebbe i trattati – le obbligazioni emesse dai Tesori. In questo modo ne sosterrebbe il prezzo e quindi ne comprimerebbe i rendimenti, ossia schiaccerebbe il costo del debito, aiutando l’aggiustamento dei conti pubblici.

La scelta europea segue il modello anglosassone: i mercati sono liberi di muoversi, ma, quando producono dei prezzi che possono spingere in direzioni pericolose, ecco che le autorità li fermano. Intervengono e impongono dei prezzi che sono maggiori di quelli che si formerebbero altrimenti. Una volta che tutto si stabilizza, le autorità si ritirano, ossia vendono quel che hanno acquistato. Si crea però una situazione di «azzardo morale» per i mercati, che sono sempre salvati, e per i governi, che possono sempre spendere più del necessario. Le oscillazioni del G20 riflettono questa contraddittorietà. Ad aprile i paesi erano invitati a non toccare il deficit pubblico fino a quando la ripresa non fosse partita, adesso i paesi sono invitati a portare sotto controllo la dinamica dei debiti pubblici, prima che i mercati chiedano dei rendimenti troppo elevati.


Quali politiche per l’Italia?
 
In passato, quando la situazione del debito era ingestibile, si lasciava correre l’inflazione. Il debito pubblico era pagato alla scadenza al prezzo di emissione, e dunque in moneta corrente era pagato poco o niente. Le entrate pubbliche erano intanto salite molto, perché lo stato raccoglieva le imposte, che crescevano in termini nominali. Circa è quello che è accaduto in Italia dopo la Seconda Guerra. S’immagini – e questa è la differenza fra allora e oggi – un mercato delle obbligazioni efficiente. Quest’ultimo brucerebbe i tentativi di salvare le cose con l’inflazione, perché chiederebbe dei rendimenti enormi alle aste. Il mercato efficiente salverebbe il risparmio delle famiglie. Inoltre, se i salari e le pensioni sono indicizzati, ecco che le spese pubbliche restano costanti. La politica, intesa qui come costellazione di forze, ha oggi il mercato delle obbligazioni efficiente e i redditi popolari indicizzati. Dunque manca l’arma invisibile dell’inflazione. Fare politica oggi è quindi più difficile.

Resta oggigiorno, per portare sotto controllo il debito, una combinazione siffatta: 1) taglio delle spese, o riduzione della spesa tendenziale; 2) rialzo delle imposte, ma non necessariamente delle aliquote; 3) stabilizzazione dei rendimenti del debito, che passa anche attraverso gli aiuti degli altri paesi, e dall’intervento della banca centrale.  Insomma, alla fine, proprio quello che si sta facendo.

Non è evidentemente facile far passare queste manovre in un mondo dove si deve conquistare il consenso, e dove i gruppi organizzati sono diffusi e hanno peso. L’Italia ha un bilancio pubblico che ruota intorno al pareggio prima del pagamento degli interessi, ma ha un enorme debito pubblico, e ha un’economia che cresce – ormai da anni – poco. Per far scendere il debito non subito, ma in molti anni, l’Ocse stima per l’Italia un saldo primario del 3%, un numero simile a quello prima citato del Fmi del 4%. In termini assoluti, il 4% sono una cinquantina di miliardi. Un numero da ricordare, come vedremo poi.
 
Sui numeri complessivi si direbbe che le cose non sono mal messe, meglio, che non lo sono, se viste in rapporto con quelle degli altri paesi. Neppure facendo delle previsioni sulla crescita delle pensioni l’Italia è mal messa. Secondo uno studio della Banca dei Regolamenti Internazionali l’Italia è messa meglio degli altri paesi. (Il calcolo sulle pensioni è fatto mettendo a confronto gli impegni con i versamenti ad aliquote costanti).
 
L’Italia cresceva molto negli anni cinquanta e sessanta, poi negli anni settanta e ottanta ha incominciato a crescere meno. Negli ultimi due decenni ricordati è stato ampliato lo «stato del benessere» oltre le entrate fiscali. Lo «stato del benessere» è stato quindi finanziato dalla crescita del debito pubblico. La crescita degli ultimi due decenni succitati era aiutata dalla svalutazione della lira (prima, fino al 1971, si avevano i cambi fissi). Negli anni novanta si è arrivati al dunque, quando è stata presa la (giusta) decisione di bloccare la crescita del debito pubblico e di rinunciare, entrando nell’euro, allo strumento della svalutazione del cambio per far «tornare i conti», ossia di smettere di usare il cambio per lubrificare una crescita dei costi industriali maggiore della crescita del prodotto per addetto. Il debito pubblico da allora non è più cresciuto.

Il nostro debito pubblico è «grosso» e «costoso», ma alla fine sotto controllo, sempre che non rialzino molto i tassi d’interesse in tutto il mondo. Sotto controllo, ma in grado di distogliere la spesa pubblica da altri impieghi, oppure capace di impedire la riduzione del carico fiscale. Dunque dov’è esattamente il problema? La ripartizione dei carichi fiscali è «iniqua», nonostante la forte progressività delle imposte. Iniqua per l’evasione fiscale e per lo spreco di spesa pubblica. Si tenga conto che anche gli altri paesi hanno la loro bella evasione fiscale, e dunque il concetto è relativo. In termini assoluti, l’evasione italiana arriva a un quarto del reddito nazionale. Abbiamo poi lo spreco della spesa pubblica. Spreco legato al maggior costo dei servizi, in rapporto alla loro qualità in alcune aree rispetto ad altre. Si possono fare dei conti.

Che cosa accadrebbe se l’evasione italiana fosse simile a quella degli altri paesi e se la spesa pubblica fosse efficiente? I conti sulla ripartizione della spesa per Regioni devono seguire delle regole: 1) la spesa per la difesa, se l’esercito è in Friuli e non in Umbria, è per ragioni militari, e dunque va esclusa dal computo; 2) gli insediamenti pubblici, se un impianto o la sede legale è in una regione e non in un’altra, vanno esclusi dal computo; 3) le pensioni – se sono maggiori in Liguria è per l’effetto della popolazione anziana che ha versato i contributi quando c’era ancora un’industria ricca – vanno escluse dal computo; 4) gli interessi sul debito pubblico – le regioni ricche con un tasso di risparmio maggiore e con una popolazione anziana ricevono un maggior gettito cedolare – vanno esclusi.

Facendo tutti i conti, ossia concentrandosi sulla sola spesa discrezionale e stimando una riduzione dell’evasione fiscale, viene fuori che: 1) nel caso di assenza di solidarietà (ogni regione vive del reddito che produce), quelle meridionali riceverebbero dallo stato centrale 80 miliardi di euro in meno; e 2) nel caso di piena solidarietà (ogni cittadino riceve dallo stato quanto la media nazionale), le regioni meridionali riceverebbero dallo stato centrale 50 miliardi di euro in meno. Se si facesse un’analisi per regione singola, allora non tutte le regioni del Nord sarebbero «donatrici nette», e non tutte quelle del Sud «prenditrici nette». Ma i numeri alla fine sono largo circa questi.

Tutti i paesi hanno aree più ricche e più povere, ma l’Italia registra delle differenze maggiori e soprattutto persistenti. La soluzione del «federalismo» suona bene, perché sembra un metodo che ribadisce la responsabilità, mentre include la solidarietà. Senza però dei paletti precisi – la punizione delle «cicale», ossia chi spende troppo e male nella propria regione deve alzare proprie imposte – il federalismo potrebbe non aiutare a spendere meno e meglio. I 50 miliardi di euro sono circa 1.000 euro per italiano, inclusi i nonni e i neonati. Non s’intravede un modo migliore di alzare il tenore di vita dei contribuenti ben governati, a parità di costo del lavoro, che non sia questo. L’altra strada è quella di lasciare stare tutto com’è, sperando in un «miracolo di produttività»…