Il primo dicembre Barack Obama annuncerà la sua strategia per vincere la guerra in Afghanistan. Secondo le anticipazioni (1), ci sarà un aumento di 30-36 mila soldati e la richiesta di un contributo da parte degli alleati della Nato di altri 10 mila. La gestazione della strategia è stata lunga e delicata: il generale che conduce le operazioni in Afghanistan, Stanley McChrystal, ha consegnato il suo report sulla richiesta di un aumento delle truppe all’inizio di settembre e da allora l’Amministrazione ha avuto decine di incontri per capire come gestire la richiesta del generale. Ad alcuni di questi incontri ha partecipato anche Peter Orszag (2), capo dell’Ufficio Budget, colui che deve tenere in ordine i conti del governo americano.
I costi della guerra preoccupano un’Amministrazione che già ha investito miliardi per la ripresa economia, nel salvataggio di industrie e istituti finanziari, ed è alle prese con una riforma sanitaria che dovrà essere ripagata con un aumento delle tasse. La strategia afgana non soltanto crea un problema politico a Obama – che dovrà convincere gran parte del suo stesso partito della bontà della sua decisione, ma anche uno economico. E la missione in Afghanistan, con l’aumento di truppe, deve avere il voto del Congresso. Nancy Pelosi, speaker della Camera, aveva convinto i democratici a votare un nuovo stanziamento per Iraq e Afghanistan di 100 miliardi di dollari, tre mesi fa, promettendo che quella fosse “l’ultima volta”. Ora bisogna trovare altri 34 miliardi: come ha scritto l’Economist (3), tenere un soldato in battaglia per un anno costa circa 250 mila dollari. Secondo le stime dell’ufficio di Orszag, ogni nuovo soldato inviato costa poco meno di un milione l’anno.
Molti temono che con la scusa della guerra si faccia slittare ulteriormente la riforma sanitaria (finora è stato il contrario): non ci sono fondi per finanziare entrambe le cose. Ecco perché i democratici stanno pensando di introdurre una “war tax”, una tassa di guerra. E’ già successo: tra il 1950 e il 1951, il Congresso alzò le tasse per pagare la guerra in Corea; nel 1968, un 10 per cento di tassa straordinaria fu imposta per finanziare la guerra in Vietnam. Anche Bush senior alzò le tasse per ripagare la prima Guerra del Golfo, ma suo figlio, invece, George W. Bush, non ha mai imposto una tassa di guerra: la sua Amministrazione era convinta che l’esperimento di Bush senior contribuì alla sconfitta elettorale che aprì le porte a Bill Clinton, e in più il consenso alle guerre in Iraq e Afghanistan non è mai stato abbastanza solido da rischiare l’introduzione di un’imposta.
Finora le due guerre sono costate un trilione di dollari, e gli analisti di Bush hanno sottostimato a lungo i costi della guerra. Lawrence Lindsey, che fu licenziato da Bush come consigliere economico per aver fatto delle stime troppo alte dei costi della guerra, ha scritto un libro nel 2008 (4), in cui spiega che raggiungere i livelli churchilliani di “sacrifici richiesti” serve a coinvolgere le persone alla causa della guerra, e così magari a convincerle a pagare una tassa per vincerla. Per di più, le guerre finanziate con le tasse finiscono più in fretta di quelle finanziate con il deficit. C’è un problema però, come ha detto lo storico Robert Dallek a Obama (5): “Le guerre uccidono i grandi movimenti di riforma”.
(2) http://www.politico.com/blogs/joshgerstein/1109/Obama_set_to_decide_AfPak_costa_concern.html#
(3) http://www.economist.com/world/unitedstates/displaystory.cfm?story_id=14646613
(4) http://www.amazon.com/What-President-Should-Know-Insiders/dp/0742562220
(5) http://www.washingtonpost.com/wp-dyn/content/article/2009/10/04/AR2009100401743_pf.html
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