È di questi giorni la vicenda che vede l’amministratore delegato di una grande casa automobilistica europea invitato, quasi direttamente dal presidente degli Stati Uniti, a prendere il controllo anche di un’azienda americana sull’orlo della bancarotta. Questa vicenda apre scenari strani e in parte imprevedibili.


Superiamo, per un attimo, i discorsi sulla specificità del caso. Accantoniamo il compiacimento di molti per la richiesta di salvataggio arrivata, a un’impresa italiana, da uno dei colossi dell’economia mondiale più potente. Dimentichiamo la considerazione che, tutto sommato, il business dell’auto è in declino e, quindi, questo non sarà che uno dei grandi passi della ristrutturazione che vedrà coinvolto il settore.
 
Guardiamo avanti, e generalizziamo un poco il discorso. La vicenda apre scenari nuovi perché è inedita sotto molti punti di vista.
 
Sarebbe già parzialmente inedita la figura di un amministratore delegato a capo di due società di dimensioni così rilevanti, geograficamente distanti e operanti in un unico settore ma in mercati (quello europeo e quello americano) tanto diversi. Non si tratterebbe, infatti, di una tipica multinazionale, con una capo-settore di cui è chiaramente individuabile il paese di origine, né di una tipica alleanza tra due imprese guidate da due management group distinti che rispondono ai rispettivi azionisti. Fino a qui, però, saremmo nel campo della governance aziendale, che evolve continuamente e che, come è naturale nei momenti di crisi, può generare soluzioni innovative per risolvere problemi contingenti particolarmente gravi.
 
Quello che è inedito, nella vicenda, è la numerosità degli stakeholder coinvolti e gli intrecci di interessi che ne derivano. Intrecci che potrebbero determinare un vero risiko nella governance aziendale e che meritano di essere seguiti con attenzione.
 
Innanzitutto, le due aziende operano in un settore altamente labour intensive e, pertanto, i piani industriali che verranno sviluppati avranno forti conseguenze in termini occupazionali. I lavoratori (e i sindacati che in qualche misura ne rappresentano gli interessi) sono i primi stakeholder coinvolti nell’iniziativa. E non i lavoratori di un paese, rappresentati dai sindacati di un paese che siedono al tavolo delle trattative con i rappresentanti della controparte e del governo di un paese, bensì i lavoratori di due paesi, soggetti a regolamentazioni diverse, con salari diversi, rappresentati da sindacati di due diversi paesi e con controparti profondamente diverse. Quanto peserà tutto ciò, quando si dovrà decidere sulla localizzazione della produzione e sulla determinazione dei salari relativi? Avranno più potere contrattuale i forti sindacati americani, che difendono, oltre ai salari, anche i notevoli elementi di «welfare» aziendale esistente, dal sistema pensionistico all’assicurazione sanitaria dei dipendenti? O avranno la meglio i rappresentanti dei lavoratori italiani, che godono, almeno all’inizio, del vantaggio competitivo di «giocare in casa», conoscendo meglio la parte che, nel salvataggio, ha avuto un ruolo attivo? Disporranno di più potere contrattuale i sindacati americani, che presumibilmente entreranno attivamente nel capitale della rispettiva società, o i sindacati italiani trarranno vantaggio da questo precedente riuscendo, dopo molti vani tentativi, a diventare «azionisti» in casa loro, implementando una sorta di «modello tedesco» sfruttando l’«insegnamento americano».
 
In secondo luogo, dato che i lavoratori coinvolti sono molti, e dato che i lavoratori sono, in primo luogo, cittadini-elettori, è inevitabile che gli interessi politici in gioco siano pesanti. Anche qui, non ci sarebbe niente di nuovo. Da sempre i rappresentanti sindacali e industriali siedono al tavolo con la controparte politica (soprattutto in Italia) per raggiungere gli accordi più delicati e importanti.
 
Anche su questo fronte, però, è evidente la discontinuità con il passato. Qui sono due i sindacati (o i gruppi di sindacati) coinvolti, e due i governi. E ciascun governo è impegnato con rilevanti interventi a favore delle rispettive imprese nazionali. Quanto influenzerà, questo incrocio di interessi, il processo di decision making della futura alleanza? Le decisioni prese saranno dettate dai criteri dell’efficienza ed efficacia economica o saranno pesantemente condizionate dalla volontà di ricevere aiuti dai rispettivi governi (1)? In quest’ultimo caso, gli scenari ipotizzabili sono davvero molti e imprevedibili.
 
Si potrebbe, ad esempio, scatenare una sorta di escalation da parte dei due governi a fornire aiuti monetari in cambio del mantenimento di elevati livelli occupazionali nei rispettivi paesi. Scenario favorevole, nel breve periodo, per l’impresa destinataria degli aiuti, ma probabilmente foriera di distorsioni e inefficienze che ne potrebbero minare la competitività nel lungo periodo. I lavoratori, inoltre, non sono l’unico gruppo sociale che può legittimamente esercitare pressioni politiche. Ci sono gli ambientalisti (2), il sistema creditizio e bancario che finanzia le due imprese, gli azionisti.
 
Come sarà l’interazione tra un’azienda guidata da un gruppo azionario ben identificato (tipico del sistema italiano) e un’azienda sottoposta a un azionariato diffuso (tipico del sistema anglosassone)? Quale dei due avrà più potere decisionale nelle dinamiche di un’alleanza di questo tipo? E poi, di quale modello di controllo si doterà un’azienda transnazionale così strutturata? Come si può vedere, il caso apre scenari nuovi e inesplorati. Non sappiamo ancora se le conseguenze saranno positive o negative, ma sicuramente gli elementi di discontinuità con il passato e le complessità sono rilevanti.
 
Volendo andare oltre, dobbiamo poi dire che il caso delle due industrie automobilistiche è interessante perché le imprese sono di grandi dimensioni, ma anche perché potrebbe fare da apripista per altre evoluzioni nella governance delle aziende internazionali. Viviamo un periodo strano. Dopo una prima corsa in ordine sparso, i governi hanno cercato di coordinare le proprie azioni anti-crisi; anche se, quando si tratta di aiuti di stato, la tentazione protezionista è sempre alle porte. E in questo scenario, in cui i governi si dividono tra una vocazione globale (interventi coordinati e comuni) e una protezionista, lo sviluppo di imprese capaci di rappresentare gruppi di interesse diversi e di diverse nazioni deve essere seguito con interesse perché potrebbe portare a scenari completamente nuovi per l’imprenditoria e la finanza globale.



(1) Segnaliamo, collateralmente, la notizia di questi giorni che vede la Spagna organizzare vere e proprie azioni mirate a favorire le imprese iberiche nell’intercettare gli ingenti aiuti anti-crisi messi a disposizione dall’Amministrazione americana, soprattutto nel campo delle energie alternative.
 
(2) Non è affatto provato che lo sviluppo di veicoli piccoli e meno inquinanti risponda all’effettiva domanda dei consumatori americani.