La vicenda di Cipro scopre il nervo del funzionamento del sistema bancario europeo e mette a nudo alcune vene demagogiche del racconto dell’euro che, se non ridimensionate, finiscono per scaricarsi in altre zone delle vita sociale e politica. Innanzitutto, la crisi di Cipro non dipende dal credit crunch, ovvero il blocco del processo di intermediazione tra raccolta e impieghi il cui superamento rappresenta un passaggio importante per l’innesco della ripresa economica in Italia. Non potrebbe essere diversamente visto che € 120 miliardi di attivi bancari si confrontano con un Prodotto Interno Lordo di circa € 15 miliardi, un rapporto di 8 a 1 (sul picco del 2010 era 11 a 1). Semmai c’è un forte esubero di credito bancario.
Questa marea di denaro ha generato importanti profitti fino al 2010 per poi mostrare improvvisamente la corda; infatti il 19 marzo 2013 l'EBA (European Banking Autorithy) segnala la particolare fragilità delle due banche cipriote le quali hanno parametri di solvibilità (RWA/CT1: attivi ponderati/patrimonio netto rettificato) pari alla metà delle media delle banche europee. Aggiungiamo che lo stress test di sei mesi prima le poneva tra il novero delle banche in grado di reggere gli urti della crisi. Ma questa è una polemica ormai vecchia su cosa dovrebbe basarsi il regolatore per ottenere le indicazioni necessarie e sufficienti per valutare la rischiosità delle aziende creditizie.
Cipro racconta non solo che la dimensione degli attivi bancari non è la chiave per la redditività e stabilità delle istituzioni creditizie ma, ancora una volta, che forse il gigantismo produce guai che il regolatore, in parte inspiegabilmente, fa fatica a cogliere. Anche oltre oceano fanno una gran fatica a capire che cosa succede dentro le banche se uno dei cinque responsabili del CFTC (Commodity Futures Trading Commission, ente governativo con lo scopo di assicurare l’integrità del mercato dei futures e delle opzioni) dichiara di non capirci nulla dei dati che le settanta banche forniscono, addirittura illeggibili per i computer.
Nella confusione generata da questo episodio è necessario ricordare alcune cose. Il sistema bancario italiano non soffre di elefantiasi, avendo un peso sul PIL pari a 1,85 volte, il più basso di Europa. Per memoria: Cipro almeno 8, Irlanda e UK tra 6 e 7, Olanda tra 4 e 5, Austria, Spagna, Francia, Finlandia, Germania, Belgio e Portogallo tra 3 e 4, Grecia 2. Il blocco dell’erogazione del credito in Italia deriva dall’ovvio maggior peso del debito italiano nei bilanci bancari. Se questo viene declassato in diverse forme la parte che viene sacrificata è la componente di impieghi alle famiglie (soprattutto mutui) e alle imprese, a meno di ricorrere ad incessanti aumenti di capitale che modificherebbero di poco la dinamica creditizia italiana.
Una banca detiene 100 di attivo, di cui 20 in titoli di Stato italiani e 80 in impieghi alle imprese, a fronte del quale è richiesto 10 di capitale, data la rischiosità attribuita alla due componenti. Se il rischio della componente “titoli di Stato italiano” sale del 10%, ovvero viene valutata 22 nei parametri EBA, a parità di patrimonio devo ridurre la componente “impieghi alle imprese” di 2, portandola a 78. Se a livello di sistema vendo i titoli in “eccesso”, alimento il rischio di ulteriore declassamento. Il blocco dell’erogazione del credito partito nell’estate del 2011 è stato innescato da questo meccanismo.
Il percorso di smobilizzazione dei crediti che le imprese italiane vantano nei confronti della pubblica amministrazione è una parte importante della soluzione del problema. Gli altri due tasselli sono rappresentati 1) dalla ripresa della circolazione della moneta bancaria, ovvero il pieno e libero accesso alla liquidità che la Banca Centrale Europea ha messo a disposizione delle banche europee e 2) dalla continuazione del percorso di risanamento delle finanze pubbliche. Per il momento, l’Italia resta l’unico paese ad avere un peso assolutamente irrisorio dell’intervento pubblico a difesa del sistema bancario.
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