Prima di conoscere la manovra fiscale, proviamo a mettere a fuoco la vicenda nel suo complesso. Il ragionamento si divide in due: quello aggregato – i numeri nel loro complesso e la loro compatibilità con gli accordi europei, e quello relativo al taglio delle imposte sugli immobili. Alleghiamo, infine, un approfondimento sulla logica e sui vincoli del taglio della spesa, oltre ad una digressione sull'efficacia delle politiche di rilancio fiscale.

 

1 - Le grandi linee della manovra

Si hanno le uscite (prima riga) e le entrate (seconda riga). Se le uscite sono maggiori delle entrate, ecco che si ha un deficit nel bilancio dello Stato (terza riga). Proviamo a isolare le spese per interessi sul debito pubblico. Sottraiamo dal deficit (terza riga) il surplus primario, ossia le spese meno le entrate prima di pagare gli interessi sul debito (quarta riga). In Italia esso è positivo (lo stato spende meno di quanto incassi prima di pagare gli interessi). La somma fra il deficit corrente ed il surplus primario è la spesa per interessi di ogni anno (quinta riga).

I numeri (del Fondo Monetario, Fiscal Monitor, Ottobre 2015) mostrano per l'Italia una spesa cresciuta rispetto al suo livello ante crisi, una pressione fiscale cresciuta più della spesa rispetto al livello ante crisi. I numeri mostrano, infine, una discesa della spesa per interessi - il debito pubblico cresce non poco nel periodo, ma i rendimenti richiesti per collocarlo scendono molto.

% PIL 2006 2015 2017
Uscite A 47,6 50,7 49,1
Entrate B 44 48 47,9
Deficit B-A=C 3,6 2,7 1,2
Surplus Primario D 0,6 1,3 2,6
Costo debito D+C 4,2 4 3,8

Se disaggreghiamo  numeri, osserviamo che le Amministrazioni Centrali e Locali hanno controllato la loro spesa corrente e compresso gli investimenti. La spesa pubblica è perciò cresciuta a livello sanitario e pensionistico. E' tutta la spesa sanitaria e pensionistica giustificata? No, perché vi sono sprechi nella sanità, mentre si hanno ancora – nonostante le riforme - delle pensioni generose ( = superiori ai versamenti, ossia le pensioni di anzianità).

Concludendo, secondo le stime di ottobre del Fondo Monetario le spese scenderanno nel 2017, mentre le entrate nel 2017 resteranno circa allo stesso livello. Il deficit resta comunque sotto il tre per cento e quindi sotto i vincoli di Maastricht. Alla fine, il dibattito sulla manovra in corso non è sui numeri aggregati, che “tengono”, ma su quelli disaggregati. L'ulteriore taglio della spesa – la spending review mostra ormai dei numeri dimezzati, e la bontà di procedere ad alleggerire il carico fiscale sugli immobili invece che sul lavoro e il capitale è questione aperta. Quest'ultima – quella gli immobili - è questione politica da anni, perché era il cavallo di battaglia del Centro Destra, ed ora è diventato un cavallo di battaglia maggiore del Centro Sinistra che vuole “sfondare al centro” grazie ad una mossa ad alto impatto emotivo – “la tassa sulla casa è la più odiata dagli italiani”.

Vediamo come questa vicenda si palesa sul versante economico in tre passaggi.

L'abbattimento del carico fiscale sulla casa alimenta la domanda? Sono nel complesso circa 25 miliardi di imposte in meno per circa 35 milioni di abitazioni. Dividendo il primo numero per il secondo si hanno circa 700 euro di carico fiscale medio per abitazione. Questa è appunto la media, ma la gran parte delle abitazione paga delle imposte minori, e dunque un numero (mediano) intorno a 500 euro è più veritiero. 500 euro all'anno sono meno di 50 euro “liberati” al mese. Possono queste somme spingere la domanda di consumi? Saranno spesi oppure risparmiati? Saranno in parte spesi e in parte no? Infine, in trenta anni sono 15.000 euro risparmiati, e le case costano intorno ai 150 mila euro. Ossia un dieci per cento della spesa per comprare una casa. Possono queste somme spingere il mercato immobiliare, nel senso che, pagando meno imposte, costerà meno comprar casa? Oppure il venditore alzerà il prezzo di vendita per una parte delle minori imposte?

Ma tralasciamo queste semplici obiezioni. E saltiamo anche l'obiezione che le imposte sulla casa ci sono in tutti i Paesi e quelle italiane sono (erano) nella media. Le imposte sulla casa servono a ripagare le spese pubbliche che consentono la loro valorizzazione. Per esempio, con i soldi pubblici si costruisce una metropolitana che valorizza le abitazioni private che sono nelle vicinanze della nuova stazione.

Ed arriviamo all'obiezione finale, quella relativa al rilancio del settore immobiliare. Le minori imposte spingono il mercato immobiliare, si dice. I prezzi delle abitazioni potrebbero dunque salire dopo essere caduti parecchio negli ultimi anni. Se salgono, allora ci deve essere chi paga più dei prezzi correnti. Ma chi paga di più deve essere un giovane, oppure una coppia di giovani, oppure ancora una famiglia di extra-comunitari, che abbia un reddito abbastanza elevato per pagarla. La crescita della popolazione in Italia è nulla e comunque i redditi dei giovani e degli extra-comunitari sono bassi. Una gran domanda di nuove abitazioni non dovrebbe perciò palesarsi, mentre è la costruzione di nuove abitazioni a muovere il PIL, non le transazioni di immobili esistenti. Ossia, ammesso mai che i giovani e gli extra-comunitari acquistino casa, se la casa esiste già, il PIL non si muove.

2- Approfondimenti

2 -1 – Tagliare versus non tagliare

Fino agli anni Novanta l'Italia cresceva molto: a) La dinamica demografica era favorevole – gli allora numerosi giovani compravano i beni di cui avevano bisogno; b) il bilancio pubblico era espansivo, ossia le spese ex pagamento degli interessi erano maggiori delle entrate; c) dal nulla era sorta un'intera regione economica – il Veneto Marche. Ormai, non abbiamo più alcuna delle tre spinte. Inoltre, agli inizi degli anni Novanta, l'Italia aveva un'economia molto statalizzata con un gran debito pubblico, con quest'ultimo che era figlio della costruzione veloce dello stato sociale senza un gettito corrispondente. Il dibattito - in una economia ormai stagnante - oggi verte intorno al taglio delle imposte, che si può avere con una spesa pubblica in compressione. Insomma, lo scontro è fra il “partito della spesa” e quello del “minor carico fiscale”.

Il ragionamento di quelli che non vedono che cosa ci sia “in sostanza” da toccare sul lato delle spese, è questo: a) In Italia si ha un'alta spesa per interessi, circa il 4% del PIL. Non possiamo fare nulla per ridurla, essa, infatti, si forma sui mercati finanziari che fanno le comparazioni fra i debiti pubblici. b) e abbiamo un'alta spesa per pensioni. Quel che si poteva fare per ridurre quest'ultima è stato fatto. c) L'Italia perciò, se si esclude la spesa per interessi e per pensioni, che sono delle “esogene”, è fra i Paesi con la minor spesa pubblica in rapporto al PIL dell'Unione Europea. Insomma, chi fa parte del “partito della spesa” segue queste argomentazioni.

Chi, invece, fa parte del partito del “minor carico fiscale” non parte dalla media dei paesi dell'euro area ma dal più efficiente fra quelli di grande dimensione – la Germania. Voce per voce, si vede che si può spendere meno. L'idea di fondo è che esiste un livello di spesa oltre la quale non si ha un ritorno proporzionale dei servizi. Per esempio, la salute. La spesa sanitaria sale velocemente, ma la speranza di vita aumenta lentamente. Per esempio, la scuola. Aumenta la spesa, ma è da vedere se, da un certo punto in poi, cresce la qualità del capitale umano o solo il monte salari degli insegnanti.

Dov'è, alla fine, la differenza fra il “partito della spesa” e quello della “riduzione delle imposte”? Il primo vuole lo “stato sociale”, mentre il secondo, crudele, vuole tornare allo “stato minimo”? No, la differenza maggiore, è che il primo, a differenza del secondo, non vede “i risultati marginali decrescenti” della spesa pubblica. Infatti, parla solo di “livelli” e mai di “efficienza”.

2 – 2 - Sulla difficoltà del tagliare

Si parla da tempo della revisione della spesa statale, la famigerata spending review. Essa dovrebbe essere ridotta a parità di servizi offerti, ossia resa più efficiente. Ma si è, allo stesso tempo, visto che non è per niente facile raggiungere questo obiettivo. Una spiegazione della difficoltà potrebbe essere questa.

Il voto degli elettori non è semplicemente basato su preferenze ideologiche verso, per esempio, una maggiore/minore presenza dello stato nell’economia, ma sul beneficio che ciascuno può ottenere dalla spesa pubblica. Ogni gruppo portatore di interessi è interessato ad una legislazione che possa trasferire risorse a suo vantaggio, e per questo è interessato ad eleggere rappresentanti che possano portare le istanze di questi gruppi nell’assemblea rappresentativa. I politici, d’altra parte, devono sostenere campagne elettorali costose e quindi hanno bisogno di finanziamenti da questi gruppi, un investimento che poi dovrà avere un rendimento per questi gruppi.

In secondo luogo, se i politici si fanno portatori degli interessi dei gruppi che li hanno votati, dovranno trasformare questo sostegno in attività legislativa: ogni rappresentante promette di votare a favore dei progetti di legge presentati da altri, se gli altri rappresentanti votano per il suo, in questo modo si ottiene la maggioranza semplice dei voti dell’assemblea e i singoli progetti diventano legge e ripagano l’investimento realizzato dai gruppi di interesse finanziando i singoli candidati. Questo tipo di comportamento, mettere insieme diversi progetti di legge che determinano trasferimenti di risorse dallo stato ai diversi gruppi di interesse, ha l’effetto rilevante di espandere la dimensione del settore pubblico: ad un trasferimento ne viene aggiunto un altro ad un nuovo gruppo nei momenti di crescita, ed allo stesso modo nei momenti in cui fosse necessario ridurre la spesa pubblica, ogni rappresentante/gruppo cercherebbe di spostare su altri l’onere dell’aggiustamento, aggregandosi ad altri rappresentanti – portatori di altri interessi – per ottenere questo risultato.

Ecco perché realizzare una efficace spending review è complesso: portatori di diversi interessi si coalizzano per rendere più difficile la riprogrammazione e diminuzione della spesa.

2 – 3 - Condizioni per il funzionamento di una politica “keynesiana”

La nuova linea del governo è spiegata in questo modo: 1 – esiste, come accordo a Bruxelles, uno spazio di rilancio fiscale per chi abbia fatto le riforme strutturali. Tradotto: si può avere un deficit maggiore, avendo noi fatto la riforma delle pensioni e del mercato del lavoro. 2 - Il deficit maggiore sarà il frutto di minori imposte permanenti non del tutto compensate dai tagli delle spese. Se fosse così, la riduzione del debito pubblico in rapporto al PIL sarà più lenta di quella si sarebbe avuta raggiungendo il pareggio di bilancio nel 2018. 3 - A meno che la crescita non si riveli di molto maggiore di quella che avremmo avuto raggiungendo il pareggio di bilancio.

Il rischio potrebbe allora essere quello di avere una politica espansiva in fase di ripresa, con la necessità di doverla poi correggere in una restrittiva se le cose andassero male in futuro, ossia se la gran crescita non si palesasse, con il debito pubblico che nel frattempo è diventato più grosso. In caso di correzione del bilancio dovuto ad una modesta crescita, le imposte dovrebbero venir rialzate e quindi non sarebbero più permanenti. Ma tralasciamo questo importante punto legato al rischio di previsione.

La scommessa implicita nel ragionamento è la crescita maggiore che si avrebbe con un bilancio dello stato più flessibile – una scommessa che possiamo per amore di etichetta definire “keynesiana”. Chiediamo così lumi a due economisti “keynesiani” (De Long e Summers, Fiscal Policy in a Depressed Economy, marzo 2012).

Secondo loro, l'espansione dell'economia (purché sia depressa, ossia con una sotto occupazione degli impianti e della manodopera, condizione presente in Italia) attraverso un maggior deficit pubblico senza per questo avere un aumento del debito pubblico (in percentuale del PIL) è possibile. Ciò avviene se il deficit pubblico alimenta la domanda aggregata per una somma maggiore della spesa iniziale in deficit (ossia, se il moltiplicatore della spesa è significativo), a condizione che il costo del debito pubblico sia inferiore al tasso di crescita dell'economia. In Italia il costo del debito è pari - sulla media delle scadenze delle obbligazioni dai tre mesi ai trenta anni – a meno del 4%. Poniamo che il costo del debito resti invariato a fronte della ripresa della spesa pubblica in deficit. La crescita economica (reale e nominale) che riduca il peso (percentuale) del debito pubblico che si dovrebbe avere deve perciò essere intorno al 4%. La crescita economica dovrebbe perciò mostrare un tasso di inflazione (il deflatore del PIL) intorno al 2% (il valore corrente è più basso) e una crescita reale intorno al 2% (la crescita negli ultimi anni è stata più bassa). Il 4 per cento è perciò un numero alto per l'Italia. Da qui il rischio.