Rivalutandosi la moneta dell’esportatore, questo finirà col vendere meno, deprezzandosi la moneta dell’importatore questo venderà di più. La Cina poi, grazie alla moneta forte, pagherà pure meno le materie prime sia energetiche sia alimentari, e quindi potrà fermare l’inflazione, che sta salendo, essa era del 2% a gennaio è del 6% oggi.
Questo modo di vedere ha implicita un’idea tradizionale dell’economia, ed è forse per questo, le idee sedimentate persistono, che le cose paiono tanto ovvie. Secondo questo modo di vedere le economie sono largamente industriali, la proprietà è a base nazionale, e si producono dei beni che sono sostituibili. Le cose sono molto più complicate e questo contribuisce a spiegare la riluttanza cinese e lo scetticismo di molti occidentali. Manca nel ragionamento appena esposto nientemeno che la globalizzazione.
Vediamo come gira un ragionamento che provi ad includerla. I cinesi esportano dei beni manufatti di media e bassa tecnologia, costruiti in Cina da imprese estere. Due terzi delle loro esportazioni non possono quindi venir definite “cinesi”. Il contributo cinese è quello di assemblare la tecnologia altrui, grazie alla manodopera poco costosa ed alla grande disciplina. Se, per fare un esempio, i cinesi esportano dei prodotti come le scarpe da ginnastica ed importano dagli Stati Uniti turbine, il cambio del yuan di per sé non può far molto, anche se si rivaluta, poniamo, del 20%. Le scarpe da ginnastica potrebbero infatti essere prodotte in altri paesi ancora più competitivi sui costi, poniamo il Vietnam, mentre i cinesi non importerebbero un maggior numero di turbine, soltanto perché il cambio forte le fa costare di meno. Se gli americani producessero ancora scarpe da ginnastica a costi competitivi ed i vietnamiti fossero ancora prigionieri della loro economia socialista, allora il meccanismo del cambio potrebbe funzionare. La Cina non venderebbe più le scarpe agli americani, che comprerebbero quelle fatte da loro stessi, mettiamo nel Michigan.
Le cose sono complicate sul fronte dell’economia reale, come lo sono su quello finanziario. In tutti questi anni i cinesi hanno esportato (incassato dollari) molto più di quanto abbiano importato (domandato dollari). La differenza sono i dollari in eccesso. Per evitare che questi dollari facessero salire il cambio del yuan, la banca centrale cinese li ha comprati dai cinesi, offrendo loro in cambio yuan. Più precisamente, per evitare che crescesse la massa di yuan in circolazione, ha venduto loro in cambio delle obbligazioni in yuan, che danno diritto ad un interesse. La banca centrale ha poi investito questi dollari, comprando una gran quantità di obbligazioni statunitensi. Dunque la banca centrale cinese ha debiti in yuan e crediti in dollari. Se il yuan si rivalutasse molto, la banca centrale, che con le cedole incassate dai titoli americani paga le obbligazioni vendute ai cinesi, si troverebbe in difficoltà. Le cedole in dollari varrebbero infatti meno in yuan, che è moneta che la impegna come debitore.
Se i cinesi smettono di sostenere il cambio e fanno salire il yuan, rischiano di perdere delle quote di mercato a favore di altri paesi emergenti, ma possono sempre consolarsi, pensando che hanno finalmente messo un freno all’inflazione. Essi hanno però emesso molte obbligazioni per drenare i dollari e debbono quindi pagare gli interessi. Se rivalutano, le cedole che incassano negli Stati Uniti varranno meno in yuan. Dovranno allora emettere altre obbligazioni per coprire la differenza. In questo modo però alzano gli oneri debitori nel futuro. In alternativa, possono creare moneta, ma allora sarebbero daccapo con l’inflazione.
Se, presi da sconforto, decidono di non far niente e continuano ad accumulare crediti in dollari e debiti in yuan, si troveranno domani nella stessa situazione di oggi. La vicenda si vede bene che è complessa e che non ci sono delle soluzioni facili. La rivalutazione del yuan sarebbe la soluzione se il mondo fosse ancora quello delle vecchie economie industriali dei paesi occidentali con i paesi socialisti completamente chiusi agli scambi. Non solo, se il mondo fosse ancora quello in cui i paesi ricchi sono i creditori. Oggi i paesi ricchi sono diventati i debitori. La globalizzazione ha cambiato tutto. Urgono nuove ricette.
Pubblicato su Il Foglio il 13 novembre 2007
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