Ormai possiamo affermarlo con sufficiente certezza: lo stereotipo dell’Occidente ossessionato dall’incubo del ricatto energetico, in un mondo dipendente da risorse sempre più care e scarse, non esiste più. Nel 2012 gli Stati Uniti hanno superato la Russia in testa alla classifica mondiale dei paesi produttori di gas, l’anno prossimo supereranno l’Arabia saudita in quella dei produttori di petrolio.

Secondo il presidente dell’Eni, Giuseppe Recchi, il mondo dispone oggi di riserve petrolifere sufficienti per i prossimi 180 anni. Mai nessuna teoria è stata più clamorosamente smentita, di quella apocalittica sul cosiddetto “picco del petrolio”, formulata una prima volta nel 1956 e poi rilanciata a più riprese e con grande enfasi nei decenni seguenti, ma rivelatasi sempre puntualmente sbagliata.

Siamo in presenza di un vero e proprio cambio di paradigma, innescato dalla scoperta di nuove tecniche di estrazione di gas e petrolio, dalle profondità degli scisti argillosi. In verità, la presenza di questi immensi giacimenti era nota da tempo, ma solo notevoli investimenti e il perfezionamento delle tecnologie hanno consentito, agli inizi degli anni Duemila, di sfruttarla con successo. Sono migliorati il controllo della perforazione e la flessibilità dei metalli, che oggi consentono, a grandi profondità, di scavare fino a 7 chilometri quasi in orizzontale. Questo processo avviene con la tecnica della frantumazione (fracking) delle rocce argillose, contenenti grandi “bolle” di gas, mediante il getto ad alta pressione di acqua mista ad additivi chimici. Si estraggono così lo “shale gas” e lo “shale oil”, che hanno completamente sconvolto l’assetto energetico del pianeta, con conseguenze economiche e politiche tutte da valutare.

Uno dei primi effetti di questa rivoluzione è il ritorno già in corso, sul suolo americano, di alcune produzioni industriali manifatturiere, nei settori più “energivori”. Per effetto del crollo dei prezzi dell’energia, molte industrie stanno rilocalizzando gli impianti, con significativi riflessi sull’occupazione. Secondariamente, negli Usa i rigassificatori, costati in precedenza grandi investimenti, sono stati rapidamente smantellati e verranno sostituiti con nuovi impianti di liquefazione (ne sono previsti 7) che fra 3 o 4 anni permetteranno agli Stati Uniti di esportare il gas in bombola attraverso gli oceani.

La partita si presenta alquanto complessa. Secondo il repubblicano Richard Lugar, presidente della commissione Difesa del Senato americano, gli Usa dovrebbero indirizzare l’esportazione di gas esclusivamente ai paesi alleati della Nato (oggi ne beneficiano solo Canada e Messico). In tal modo l’America farebbe crollare il prezzo del gas russo, mettendo all’angolo le velleità imperiali di Putin. Secondo altri osservatori, questa visione della destra americana è in gran parte illusoria. Per commercializzare il gas fra paesi lontani servono costosi impianti di liquefazione e rigassificazione: fra questi ultimi, quelli già operativi in Europa occidentale (i 3 italiani e i 6 spagnoli, ad esempio) sono oggi largamente sottoutilizzati. Se mai il prezzo del gas dovesse scendere, in conseguenza dell’offerta americana (ipotesi tutta da dimostrare) sostenere questi investimenti risulterebbe antieconomico, mentre l’Europa avrebbe tutto l’interesse - come ha scritto Stefano Casertano su Pagina 99 del 15 marzo - a “restare attaccato alla mammella metallica russa, perché il prezzo non sarebbe sufficiente a coprire il costo dei nuovi impianti di importazione via nave”.

Fondati o meno che siano i complicati ragionamenti della geopolitica, è certo che l’America appare oggi tutt’altro che destinata a un inesorabile declino: grazie anche a questa rivoluzione energetica, la sua economia è tornata a crescere. Gli Stati Uniti dispongono in questo campo di un formidabile concorso di fattori positivi: la conformazione geologica del territorio e la grande abbondanza di acqua, innanzitutto; ma anche la disponibilità di tecnologie avanzate, l’estrema competitività del sistema industriale e finanziario, la facile accessibilità alla rete dei metanodotti; e poi ancora, un governo favorevole alla pratica del fracking e infine – ultimo ma non minore – una tradizione giuridica che vuole i proprietari del suolo titolari anche dei diritti su quanto estratto dal sottosuolo. Un perfetto rovesciamento della “sindrome di Nimby”, tanto che negli Usa i pozzi esplorativi sono circa 200.000.

 Se invece volgiamo lo sguardo all’Europa, troviamo una situazione specularmente opposta. Il quadro generale è negativo sotto il profilo tecnologico, industriale e soprattutto politico. Nel vecchio continente le resistenze allo shale gas sono innumerevoli, con la sola parziale eccezione della Gran Bretagna. La Francia ha addirittura vietato la pratica del fracking, in nome del cosiddetto “principio di precauzione”, introdotto nella Carta dell’Ambiente sotto la presidenza Chirac. Forti resistenze sono diffuse in Germania, in Spagna e in vari paesi dell’est europeo. Anche le altre circostanze al contorno già citate, non sono favorevoli. In particolare, l’opposizione dei piccoli agricoltori è fortissima e non per caso: per un contadino americano, scoprire un giacimento sotto il proprio campo è una cuccagna, per quello europeo una calamità, poiché i diritti di sfruttamento del sottosuolo sono quasi sempre di pertinenza statale.

Come denuncia lo stesso Recchi nel suo pamphlet “Nuove energie” (Marsilio) l’Europa appare “ferma al palo” a causa di una serie di occasioni mancate. Un handicap di non poco conto è dato dalla scarsa compatibilità di rete, fra gli Stati e a volte all’interno dei singoli paesi, poiché in questo settore ognuno procede in ordine sparso. Secondo uno studio della Commissione europea, una nuova rete continentale integrata di gasdotti avrebbe il costo di mille miliardi di euro, e produrrebbe risparmi valutati in circa 65 miliardi all’anno. Al momento attuale, il gas in Europa costa circa tre volte più che negli Stati Uniti, un fattore che mina alla base la competitività del Vecchio Continente.

Anche la politica europea dei costosissimi sussidi alle rinnovabili si è rivelata sbagliata: il rincaro dell’elettricità ha penalizzato l’economia, provocando oltretutto un imprevisto ritorno all’impiego del carbone, assai più inquinante. Emblematica, in questo senso, l’aggravante italiana: solo nel 2012 il nostro paese ha speso oltre 10 miliardi in incentivi, pari a circa il 18% delle bollette pagate dalle famiglie, distribuiti a pioggia a produzioni anche di bassa efficienza. Alla Spagna non è andata meglio, avendo quel governo garantito ai produttori di energia solare fino a 12 volte il prezzo di mercato. Dal 2007 al 2012 i sussidi spagnoli al solare sono passati da 190 milioni a 3,5 miliardi di euro, mentre quelli complessivi alle rinnovabili ammontavano a 8,1 miliardi, cioè quasi l’1 per cento del Pil.

In questo contesto, il gas potrebbe giocare un ruolo cruciale e nei prossimi anni saranno decisivi i meccanismi di fissazione del prezzo. Fino a pochi anni fa (2005) solo il 15 per cento del gas in circolazione aveva un prezzo “spot” (cioè determinato dalla contrattazione a breve) mentre tutto il resto era stabilito da contratti di fornitura di lungo periodo, necessari per ammortizzare i costi di costruzione dei gasdotti. Oggi invece, per effetto dell’offerta di gas americano, più della metà del gas in circolazione vede il prezzo fluttuare sulla base della domanda di mercato. Fra il 2009 e il 2012, il prezzo “lungo” è stato fino al 70% superiore al prezzo “spot”, creando continue tensioni e richieste di rinegoziazione da parte dei clienti europei verso i tradizionali fornitori (che non l’hanno presa affatto bene). Per quanto si riferisce all’Italia, il nostro paese si rifornisce di gas principalmente attraverso 4 gasdotti: Mare del Nord, Russia, Algeria e Libia, mentre una quota del 15% è importata via nave dal Qatar e altri paesi.

Come è noto, l’Italia produce idrocarburi sufficienti appena al 10% del fabbisogno nazionale; questa quota potrebbe anche raddoppiare - sostiene sempre l’interessato presidente dell’Eni nel suo libro – se non vi fossero troppe resistenze ideologiche e paure immotivate. Sono davvero così infondati i timori degli ambientalisti? I solventi e gli altri agenti chimici impiegati per l’estrazione dello shale gas potrebbero inquinare le falde, si sostiene. Ma chi utilizza questa tecnica spiega che essa viene praticata a grandi profondità, ben al di sotto delle falde acquifere normalmente utilizzate dall’uomo. Altre critiche riguardano la dispersione di gas nell’atmosfera e la possibile correlazione fra il fracking e i terremoti, ma in entrambi i casi sinora nessuna evidenza scientifica è stata riscontrata in questo senso. Rimane il “principio di precauzione”, che tuttavia anche in Francia sembra destinato a lasciare il posto a un atteggiamento più meditato e realistico. La stessa Ségolène Royal, neo-ministro dell’ambiente tornata recentemente in auge, ha dichiarato nei giorni scorsi di voler praticare una “ecologia non punitiva”.