L’indagine nota come Comprehensive Assessment che la Banca centrale Europea in collaborazione con le banche nazionali ha imposto a 120 maggiori banche dell’euro area per prevenire il rischio che possano fallire o chiedere aiuti pubblici, ha sancito che ben ventiquattro di queste banche in condizioni di stress non raggiungerebbero il livello di capitale CET1 minimo del 5,5 %.
L’esito degli stress test è stato più negativo del previsto ed ha riportato in auge la questione della presenza delle Fondazioni bancarie negli assetti proprietari degli istituti di credito. In un recente studio del Fondo Monetario Internazionale, rilasciato a settembre 2014, su come “riformare la corporate governance delle banche italiane” (1) è emerso che gli istituti controllati dalle Fondazioni tendono a mostrare dei livelli di capitale più bassi e qualità degli attivi più deboli rispetto alla media di sistema.
Nove delle quindici banche italiane sottoposte alla verifica delle Bce hanno superato gli stress test con margini molto ridotti, tutte dal 2008 al 2014 hanno fatto operazioni di rafforzamento patrimoniale per quasi 40 miliardi, di cui 10 nel 2014, mentre le due grandi sconfitte, Carige ed Mps, sono alle prese con la preparazione dei rispettivi capital plan per coprire il fabbisogno emerso come carenza dallo stress test, pari rispettivamente a 0,81 e 2,11 miliardi di euro.
E’ di tutta evidenza come le banche in cui è rilevante la presenza delle Fondazioni sono risultate meno solide rispetto a quelle in cui il processo di dismissioni è stato avviato da tempo. E quindi quali scenari per le Fondazioni bancarie?
Da anni si trascina il dibattito in merito alla necessità di una separazione tra Fondazioni e banche conferitarie, dibattito che si è acuito dall’inizio della crisi quando le fondazioni si sono trovate davanti ad un bivio: rafforzare ulteriormente la loro presenza nelle banche intervenendo direttamente nei processi di capitalizzazione oppure accelerare il processo di diversificazione anche a causa di dividendi bancari sempre più deboli o assenti. Come noto, un cospicuo numero di enti, in particolare quelli di grandi e medie dimensioni, hanno scelto di “investire” negli istituti di credito e poco è importato se tale decisione ha significato un’inevitabile dispersione delle erogazioni a favore delle comunità locali.
Eppure questa volta è diverso. In occasione della 90esima Giornata Mondiale del Risparmio che si è svolta il 31 ottobre scorso, Giuseppe Guzzetti, Presidente dell'Acri e della Fondazione Cariplo, ha fatto sapere che “le Fondazioni bancarie potrebbero aiutare Mps a ridurre la carenza di capitale evidenziata dagli stress test Bce, acquistando dal Tesoro parte dei Monti bond”. Un investimento, ha precisato Guzzetti compatibile con i vincoli degli enti, escludendo interventi diretti sul capitale. Ebbene nonostante gli sforzi compiti in questi ultimi anni per non mollare la presa sulle banche, sembra che sarà “la mano invisibile del mercato”, per dirla con Adam Smith, a ridimensionare la presenza delle Fondazioni nel capitale delle banche di riferimento.
Mentre Unicredit ed Intesa, che secondo quegli stessi stress test hanno un eccesso di capitale rilevante, si preparano ad accogliere nuovi investitori stranieri, è pressoché scontata la partecipazione delle Fondazioni Mps e Carige ai nuovi aumenti di capitale delle banche di riferimento per rimediare allo shortfall evidenziati dalla BCE. Così facendo la Fondazione Mps, che è passata in sei anni dal 51% al 2,5% del capitale della banca senese, vedrà diluire la propria quota di partecipazione al capitale della banca oltre al problema di un'ulteriore concentrazione del patrimonio. Lo stesso dicasi per la Fondazione Carige che ancora all’inizio del 2014 controllava oltre il 46% di Carige ed ora è scesa al 19%.
Tuttavia come fa osservare ancora una volta il Fondo Monetario Internazionale, seppure la quota di capitale posseduta dalle Fondazioni nelle maggiori banche è ormai inferiore al 10 per cento, spesso controllano i consigli di amministrazione attraverso patti di sindacato tra azionisti. Accordi che, al di là delle valutazioni squisitamente economiche, sembrano rispondere ad una precisa strategia quale quella di ribadire il ruolo esplicito di erogatori di risorse filantropiche nelle comunità di riferimento delle Fondazioni stesse.
(1) https://www.imf.org/external/pubs/ft/wp/2014/wp14181.pdf
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