L’aveva chiesto Aung San Suu Kyi a giugno, in occasione della sua visita in Europa, di fare del Myanmar – o Birmania, a seconda dei punti di vista – un nuovo polo di maxi investimenti. Gli Stati Uniti non se lo sono fatto dire due volte. Durante l’Assemblea Generale dell’Onu, il Segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, si è incontrata con il Presidente birmano, Thein Sein. L’occasione ha permesso alla rappresentante del governo statunitense di riconoscere i progressi ottenuti dal governo del Myanmar, nell’ambito delle riforme e sulla strada della democrazia.
Da qui la decisione di abrogare l’embargo ai prodotti birmani in arrivo in porti e aeroporti degli Stati Uniti. In attesa di quantificare il giro di affari che potrà essere innescato da questa mano tesa, ma anche aspettando di vedere i prossimi step che Yangon vorrà compiere in favore dello Stato di diritto e del pluralismo, si può già prevedere che la decisione di Washington sarà seguita da altri governi. Specie quelli europei, che hanno sempre nutrito interesse verso il Paese del sud-est asiatico, soprattutto per le disponibilità di materie prime, senza però potervi entrare. Vuoi infatti per le sanzioni Onu, come anche per l’isolamento che la Giunta militare – al potere dal 1988 – ha imposto al Paese, quello birmano non è mai stato un mercato.
Sebbene abbia tutte le carte in regola per diventarlo. Gas naturale, petrolio e altre risorse minerarie. Il sottosuolo birmano, per quanto ghiotto, non è mai stato alla portata degli investitori stranieri. A meno che questi non si sporcassero le mani con la Giunta. Così sembra che abbiano fatto in passato la francese Total e la statunitense Chevron, che nel 2007 sono state accusate di essere in combutta con i generali di Yangon.
Il settore estrattivo del Myanmar resta comunque una nebulosa. Perché in ambito petrolifero e di gas naturale, le risorse nazionali non sono strabilianti. Con i 50 milioni di barili di greggio e oltre 280 miliardi di metri cubi di gas, il Myanmar è rispettivamente al 79esimo e al 40esimo posto nelle due classifiche mondiali di riserve di idrocarburi. Non eccezionali in termini assoluti, ma sufficienti per mantenere il Paese alle prime posizioni nel sud-est asiatico. Inoltre, i dati forniti non sono certificati. Questo può voler dire che si tratta di numeri gonfiati, oppure da rivedere al rialzo. In ogni caso, sotto ai piedi della Giunta c’è della materia da sfruttare. E per estrarla servono tecnologia, know how e liquidità stranieri.
L’inversione di tendenza è iniziata nel 2010, con la liberazione di Aung San Suu Kyi da un carcere che la Giunta non poteva più sostenere. Sia in termini di immagine, sia perché quelle sbarre, che negavano la libertà alla leader della National League for Democracy (Nld), bloccavano anche gli investimenti dall’estero. La scarcerazione dell’attivista più popolare al mondo che, nel corso della sua ventennale detenzione ha vinto anche il Premio Nobel per la pace (1991), ha fatto da stura per il Myanmar alla ripresa delle relazioni con il mondo esterno. Oggi nel Paese è ancora in corso il lento passaggio di poteri, dalle Forze armate alla società civile. E in realtà poco è stato fatto davvero perché si possa parlare di un Myanmar realmente sulla strada del progresso politico.
Tuttavia, è evidente che gli Usa abbiano deciso di fidarsi delle buone intenzioni di Sein e del suo governo. È assai probabile che il motivo di tanta apertura sia la fretta di evitare che nel Paese arrivi troppa gente. Del resto, i cinesi – ma non sono gli unici nel sud-est asiatico – non si sono mai fatti scrupolo di confrontarsi con la Giunta. Anzi, in tempi non molto lontani è stata proprio Pechino a proteggere la dittatura garantendole gli investimenti e l’apertura della sua ambasciata. Ma è dagli anni Sessanta, quando ancora si parlava di Birmania, che la Cina ha aperto il suo ombrello protettivo su un regime autoritario e, già allora, in odore di militarizzazione.
Usa ed Europa invece non si muovono, se non hanno in mano una certificazione morale che garantisca, almeno in apparenza, che non stiano facendo nulla di scorretto. I precedenti imbarazzanti di Total e Chevron, se non possono essere evitati, vanno almeno contenuti. È per questo che all’Occidente è tornato necessario il placet di Aung San Suu Kyi. Nel momento in cui è stata lei stessa a esortare l’ingresso di capitali stranieri, i governi legati a questi ultimi si sono sentiti autorizzati moralmente a confrontarsi con le autorità di Yangon. A metà dello scorso giugno, la leader della Nld ha sottolineato l’urgenza di un aiuto esterno affinché il suo Paese possa rendersi davvero produttivo e uscire dalle secche dell’arretratezza terzomondista. Più del 30% dei 54 milioni di abitanti birmani vive al di sotto della soglia di povertà. È possibile che Aung San Suu Kyi abbia pensato a loro quando ha lanciato il suo appello. Oppure che sia stata ispirata dalla spregiudicatezza, ereditata dal padre, il generale Aung San, eroe dell’indipendenza. Pur di arrivare al potere, avrebbe stretto un patto faustiano con il diavolo. Vale a dire Total e sorelle.
Da qui all’accordo Clinton-Sein il passo è breve quindi. «Ci siamo anche noi!» sembrano aver detto gli Usa. «Chi meglio di noi può aiutarvi nello sviluppo e nella costruzione di una democrazia?»
Ciò che ha preso in contropiede gli attivisti anti-Giunta è stata la difesa sfoggiata dalla “Lady” in favore della Total a giugno. La compagnia francese è stata definita un investitore responsabile, il cui eventuale ritiro dal Myanmar rappresenterebbe una perdita per il processo democratico. Tecnicamente è vero. Strano è sentirlo dire da un personaggio che dovrebbe avercela a morte con le multinazionali e tutto ciò che ha un’aura di occidentale. L’improvvisa stima di Aung San Suu Kyi nei confronti degli amici della Giunta lascia pensare che, all’interno della Nld, si sia avuta un’illuminazione di realpolitik.
Magari il petrolio non è un canale diretto per la democrazia. Però ne può irrigare il terreno. Non fosse altro perché Total, Chevron o chi per loro potrebbero contribuire a contenere lo stato di indigenza della popolazione. Oltre alla povertà e alla disoccupazione, ci sono anche fame e quasi totale mancanza di strutture sanitarie. Piaghe, tutte queste, gestibili con i biglietti verdi. Poco importa se poi questi siano unti di greggio. Il petrolio e le sue rimesse domestiche potrebbero incentivare la creazione di una classe dirigente-tecnica nazionale, svincolata dai generali di Yangon e stipendiata in euro e dollari. Aung San Sun Kyi deve essersi resa conto che le major possono contribuire a scalzare definitivamente la vecchia guardia del regime e portare lei al potere. È stato proprio alla Total che il Premio Nobel ha chiesto di definire una codice di condotta e una responsabilità sociale da imporre al governo di Yangon. Questo alla faccia di chi pensa che buoni e cattivi non possano parlare e che quindi i diritti umani non potrebbero mai scendere a compromessi con le grandi società petrolifere.
Il problema però adesso è un altro. Aung San Suu Kyi ha aperto le porte del Myanmar al mondo. Quest’ultimo vi è entrato. Ma il comitato di accoglienza non è stato quello della Nld. Erano le seconde generazioni del regime – tolte le uniformi e indossate giacca e cravatta – al tavolo con la Clinton. Thein Sein rappresenta proprio il vecchio che si è trasformano in nuovo. È stato lui, nel 2007, dopo l’ennesima repressione degli oppositori, a rassegnare le dimissioni da generale, per assumere in borghese la leadership del governo. Ed è secondario che nel frattempo Aung San Suu Kyi si incontrasse con Obama a Washington. A contare è stato l’accordo ufficiale siglato al Palazzo di vetro. Un evento dove la signora Aung San non c’era.
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