La guerra contro lo Stato islamico, in Iraq e Siria, costa circa 10 milioni di dollari al giorno agli Stati Uniti (1) e il capo del Pentagono, Chuck Hagel, ha detto che, vista l’incertezza sulla durata delle operazioni, potrebbe andare al Congresso a chiedere ulteriori fondi (il Congresso non ha autorizzato la missione, il presidente Barack Obama non l’ha ritenuto finora necessario, ed è palusibile che non ci sarà alcun confronto con i parlamentari prima delle elezioni di mid-term di inizio novembre).

Da metà giugno ad agosto, la stima dei costi dell’intervento (inizialmente senza i bombardamenti) si assestava attorno ai 7,5 milioni di dollari al giorno, il che vuol dire che fino all’inizio di ottobre sono stati spesi circa 850 milioni di dollari. Con la revisione della stima operata da Hagel, il valore è in crescita. E non comprende molte attività legate alla missione, come l’addestramento dei ribelli siriani e la gestione dei 1.600 uomini che lavorano dall’Iraq.

Le stime dei costi delle guerre sono spesso influenzate dall’ideologia (chi è a favore le rivede al ribasso, chi è contrario le rivede al rialzo), ma molti esperti parlano di un costo annuo che va dai 15 ai 20 miliardi di dollari, che vanno aggiunti al budget operativo del Pentagono – che nell’anno fiscale 2015 è di 496 miliardi di dollari. In realtà le missioni di contro terrorismo sono finanziate dal fondo “Overseas Contingency Operation” che ha disposizione per ora 58,6 miliardi di dollari, ma dal 11 dicembre sarà necessario rinegoziare il suo valore. Ma in anni di tagli (quelli alla difesa sono stati brutali, ma le spese americane nelle forze armate restano in assoluto le più alte del mondo), ogni dollaro speso deve essere giustificato, soprattutto davanti agli elettori.

Al momento la guerra contro lo Stato islamico è molto più economica di quella in Afghanistan, anche perché strategicamente è del tutto diversa (dei bei grafici qui (2)), ma non bisogna dimenticare che solo quest’anno la guerra contro i talebani è costata 90 miliardi di dollari, e sarebbe l’anno del ritiro. Lì ci sono i “boots on the ground” da tredici anni, mentre la maggior parte degli americani oggi non ne vuole nemmeno sentir parlare (3). Ma se l’obiettivo è distruggere lo Stato islamico, gli attacchi dal cielo potrebbero non essere sufficienti. Se circa due mila persone sul campo costano dai 200 ai 320 milioni di dollari al mese, soltanto raddoppiarle costerebbe da 350 a 570 dollari al mese. E i volenterosi della coalizione, soprattutto i paesi arabi, non sembrano così desiderosi di contribuire alle spese.

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Gli imprenditori e gli uomini del business britannico hanno perso fiducia nella politica e nei politici, forse perché va di moda essere un po’, come dire, indignati e forse perché i politici hanno iniziato ad avere rapporti complicati con le industrie e i loro capi (per non parlare delle banche e dei banchieri, i quali però sanno di aver sbagliato e in parte si scusano, almeno in questa particolare sede).

Alla vigilia di una conferenza a Cambridge, Stephan Shakespeare, chief executive di YouGov, una delle società di sondaggi più famosa e autorevole del Regno Unito ha parlato con esponenti famosi del mondo del business e i commenti che ha raccolto non sono affatto rassicuranti (4). Per nessuno, né per il premier conservatore David Cameron che risale nei sondaggi né per il leader laburista EdMiliband che i sondaggi favorevoli al suo partito li ha affossati uno via l’altro.

Miliband ha “zero interesse” ad aiutare il business, ma Cameron pure è preoccupato soltanto di trovare una strategia efficace di containment per l’Ukip di Nigel Farage. Il leader laburista “non è interessato alla faccenda, cancella gli incontri e non li rifissa”, dice il capo di una delle più grandi aziende inglesi, mentre un altro lo definisce “il primo vero socialista che vediamo dai tempi di Kinnock”. Ma pure Cameron non se la passa bene, nonostante il suo cancelliere dello Schacchiere, George Osborne, sia piuttosto gioviale con questo target elettorale: “Sono i più pro business, i conservatori, sulla carta almeno. In realtà tutti pensano di poter ricavare dei soldi levandoli alle aziende”, dice una figura senior di un’azienda.

Il collasso delle trattative tra Pfzier e AstraZeneca ha scatenato le preoccupazioni più grandi (e anche le voci su un nuovo tentativo di fusione sono sempre meno credibili (5)). E il Labour s’è opposto all’accordo con molta fermezza. “L’accordo stracciato rappresenta la prima volta in cui degli azionisti hanno rifiutato un’offerta sulla base dell’opinione pubblica”, dice un businessman.

Eppure era un modo per attirare capitali e investimenti, approfittando di una politica fiscale studiata apposta per essere attrawnti. Ma il Labour non ha sentito ragioni, e i Tory hanno ceduto. Perché entrambi i partiti non hanno capito come vogliono posizionarsi nei confronti delle aziende, perché l’opinione pubblica è molto sensibile sulla faccenda. Soprattutto il cosiddetto “gray vote”, che è quello più conteso e che secondo i sondaggisti definirà il vincitore delle elezioni del maggio prossimo. Ma se dai Tory è facile immaginarsi, al fondo, una sensibilità che incoraggia il business, sul Labour le paure sono tante.

(1) http://www.defense.gov/transcripts/transcript.aspx?transcriptid=5506

(2) http://www.usatoday.com/story/news/world/2014/09/25/war-costs-syria-afghanistan/16211545

(3) http://www.nbcnews.com/storyline/isis-terror/poll-72-believe-u-s-will-use-american-combat-troops-n212791

(4) http://www.thetimes.co.uk/tto/news/politics/article4243823.ece

(5) http://www.ft.com/intl/cms/s/0/d4581c70-563c-11e4-bbd6-00144feab7de.html#axzz3GzZw795l