Dicono (1) che sia in corso una guerra civile all’interno del Partito repubblicano americano. Per ora confinata in Florida, ma con grandi possibilità di spargersi un pò dovunque, visto che questo in America è anno elettorale: a novembre si rinnova metà Congresso. L’elemento scatenante, dicono, è costituito dai Tea Party, nati come manifestazioni piuttosto limitate per celebrare i «Boston Tea Party», la protesta del dicembre del 1773 dei coloni americani contro il governo britannico per l’aumento delle tasse in cui furono distrutte molte ceste di tè: secondo tanti, fu la scintilla che fece scoppiare la guerra d’Indipendenza negli Stati Uniti.
Oggi i Tea Party, finiti nel dimenticatoio per decenni, sono tornati a farsi sentire, perché la voglia di andare contro il governo americano cresciuto a dismisura dopo la stagione dei bailout è diventata irrefrenabile. Il contagio è stato quasi immediato. Non c’è evento ufficiale che non veda un gruppuscolo di manifestanti dei Tea Party con i loro manifesti molto simili a quelli dei libertari, c’è stata la convention di Nashville con la guest star Sarah Palin, per non parlare della marcia a Washington (2) il 15 aprile scorso, il giorno in cui gli americani pagano le tasse, e di quella (3) diretta alla casa di Harry Reid, capo dei democratici al Senato.
Piazza arruffata ma ininfluente? Non proprio. Perché Scott Brown, il candidato sostenuto dai Tea Party alle suppletive del Massachusetts a gennaio per sostituire il seggio storico di Ted Kennedy, ora è al Senato (4). Piano piano prende forma il «tipo» dei Tea Party: il 90 per cento è convinto che Obama stia portando l’America nel baratro del socialismo, del debito eccessivo, dell’assistenzialismo all’europea e che il Congresso e la Federal Reserve siano bande di approfittatori; il 60 per cento pensa che gli anni migliori ormai siano dietro le spalle; il 57 per cento rimpiange Bush; i voti dei Tea Party verrebbero 3 volte su 4 da voti repubblicani, gente che nel 77 per cento dei casi nel 2008 ha votato John McCain. In media è un elettorato bianco, della middle class, con istruzione medio-alta: per alcuni analisti il loro è lo sfogo di «populisti privilegiati».
C’è chi sostiene che in fondo il fenomeno non è così importante: lo fa David Brooks (5), secondo il quale era già avvenuto qualcosa di simile con gli hippy negli anni Sessanta, ma il radicalismo tanto cresce tanto decade; lo fanno due analisti del supermagazine online «Politico» (6), che affermano che la copertura mediatica ai Tea Party sia straordinariamente amplificata rispetto a quanto poi di fatto valga la loro protesta.
Ma anche da questa base considerata rozza sta nascendo una forma di opposizione che potrebbe rivelarsi pericolosa, e non soltanto all’interno del conservatorismo americano: i Tea Party si stanno «normalizzando», non sono più una folla scomposta di manifesti contro il governo, stanno diventando una forza politica. Scelgono candidati per le primarie, fanno programmi elettorali, vengono introdotti nei comizi. Così tengono alta la soglia d’allerta degli americani: ora che inizierà la stagione delle tasse – inevitabilmente – i Tea Party saranno lì a ricordare ogni giorno che quando si è troppo stufi si può anche prendere e ribaltare la cesta del tè.
(1) http://online.wsj.com/article/SB10001424052748703876404575200543356844892.html?mod=djemEditorialPage_h
(2) http://www.teapartywa.org
(3) http://www.lasvegassun.com/news/2010/mar/26/tea-party-time-reids-town/
(4) http://www.csmonitor.com/Commentary/Opinion/2010/0119/Scott-Brown-the-tea-party-s-first-electoral-victory
(5) http://www.nytimes.com/2010/03/05/opinion/05brooks.html
(6) http://www.politico.com/news/
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