I costi del nucleare sono strutturalmente diversi da quelli di ogni altro impianto industriale. Non sono, infatti, semplicemente fissi e ricorrenti, ma contengono una ricorrente ombra, che è oltretutto determinante: il costo dell’assicurazione in caso di incidente. Le risposte che deve dare una politica energetica senza nucleare sono più ampie della riduzione dell’uso del petrolio e del gas nel settore elettrico. Devono essere credibilmente meno costose e a impatto più rapido. Il tempo è, infatti, il tallone d’Achille del nucleare.

Sui costi fissi e ricorrenti «normali» c’è una qualche divergenza, ma alla fine si ha un consenso attorno a valori medi – peraltro, da sempre in crescita generazione per generazione, impianto per impianto, proprio perché ogni generazione cerca di attutire il costo-ombra. Diciamo che oggi si ritiene che un impianto standard possa costare fra i 5.000 e i 6.000 euro per kw come componente fissa, che va ammortizzata. I nuclearisti più ideologici propongono 50 anni, ma il senso comune e la contabilità non riescono o non si fidano del valicare i 30. E c’è voluta una scelta «eroica» della Merkel, recente, per andare a 30. I costi ricorrenti sono: personale, manutenzione, combustibile. Certo esistono e non sono trascurabili, ma sono certo meno significativi.

Il costo sul quale, invece, non c’è assolutamente convergenza è quello assicurativo. A oggi, tutte le centrali beneficiano di un incentivo enorme, quello di non portare a bilancio il costo assicurativo pieno. A titolo di esempio, una stima di tipo attuariale-statistico direbbe che correttamente dovrei far pagare dei premi che riflettano il costo. Ma così facendo – stimando i costi d’incidente degli ultimi 40 anni, naturalmente al pieno, ovvero quello sostenuto dalla collettività – si arriverebbe facilmente a premi-monstre. Solo Fukushima è stata stimata, per ora, in 325 miliardi di euro. Probabilmente cresceranno ancora, e dunque potrei dover allocare somme probabilmente oscillanti fra 1 o 2 miliardi di euro a impianto, seppure spalmati su 30 anni. Un extra-costo, nascosto, che potrebbe essere quasi un terzo del costo di costruzione. Hic sunt leones.

Fino a oggi, c’è stato un larghissimo e il-liberista finanziamento esterno, per lo più pubblico: a) il modello Slovacchia, paese simbolo del nucleare facile: non ci assicuriamo e speriamo che Dio la mandi buona; b) il modello Francia: sussumiamo il costo assicurativo nella difesa, con la fiscalità generale; 3) il modello dell’economia sociale di mercato: «proviamo ad assicurarci» per davvero... e alla fine ci rinunciamo perché costa troppo.

La prima buona ragione per dubitare del nucleare oggi è quindi che costa troppo rispetto ad alternative già esistenti, che pure non hanno mai neanche alla lontana beneficiato di incentivi simili. E la controprova fattuale è che nessuno lo sta ordinando, esclusi i paesi sufficientemente poveri o autoritari, o meglio ancora entrambe le cose.

Per guardare la cosa dall’alto. Perché si pensa che il nucleare sia utile? a) Perché ha costi bassi del kwh; b) perché non scarica CO2 nell’aria; c) perché riduce la dipendenza da aree geopolitiche scomode; d) perché fornisce tutta la corrente che serve. Ma se a) è incerto, che cosa d’altro può aiutare su b), c) e d), soprattutto tenendo presente che gli idrocarburi vengono usati solo in misura parziale per la produzione elettrica? Essi sono usati principalmente per la trazione e il riscaldamento, dove il nucleare ovviamente avrebbe impatto nullo.

Le risposte che quindi deve dare una politica energetica senza nucleare sono un po’ più ampie che non quelle della mera riduzione dell’oil/gas nel settore elettrico. Con ogni probabilità, tuttavia, sono meno costose e a impatto notevolmente più rapido. I tempi sono infatti il vero tallone d’Achille del nucleare. Per avere degli impatti significativi sulla bilancia commerciale e sulla dipendenza, occorrono fra i 12 e i 20 anni, durante i quali l’energia elettrica continua a costare uguale e la dipendenza oil/gas rimane identica. Una vera politica dell’energia, con obiettivi di bilancia dei pagamenti, di autonomia geopolitica e ambientale deve essere molto più corta temporalmente.

Quanto finora detto mostra solo metà del problema, ovvero che il nucleare – a full costing – è caro. Resta l’altra metà, ovvero qual è l’alternativa. In tre parole: sole, vento e politica.

Sole. Il solare fotovoltaico costa oggi circa 2.000 euro per kw, ossia circa un terzo del nucleare a sconto dei premi assicurativi e circa un quarto del nucleare con assicurazione al costo pieno. Occorre una tripla precisazione: a) il kw solare produce in Italia da 1.100 a 1.600 kwh/kw-anno, ovvero un quinto di quello che produce storicamente il kw nucleare; quindi il costo di capitale per unità di prodotto è 5/4, cioè poco superiore al nucleare; b) ha però dei costi di esercizio ridicoli, pari a circa l’1% annuale del costo d’impianto. Se attualizzassimo la differenza (il nucleare ha bisogno di persone, combustibile e pesante manutenzione), non avremmo quindi un costo per unità di prodotto gran che diverso; c) i costi del solare sono in diminuzione verticale, spinti dalla tecnologia e dalle economie di scala. Possiamo perciò dire che il costo del kwh, prima dell’entrata in esercizio di una prossima ipotetica centrale nucleare, sarebbero a vantaggio del solare.

Vento. I costi dell’eolico sono oggi a 1.000 euro per kw (ovvero un quinto o un ottavo del nucleare), ma un kw eolico produce un terzo di quello nucleare. Ergo, conviene già oggi (5/3 del costo di capitale per unità di prodotto e costi d’esercizio notevolmente più contenuti). Credo che la prova migliore sia la Germania, che ha assunto la leadership industriale nell’eolico, ormai prossimo alla grid parity (ovvero che «anche» ai costi attuali, un po’ truccati, regge la parità). Il problema finale è allora se esiste un limite quantitativo nell’offerta. In Italia si fa 1 MW con circa un ettaro di terra, o di tetti. Una centrale standard nucleare da 1.000 MW richiederebbe dunque 1.000 ettari. Ovvero un quadrato da circa 3 km di lato. Ingombrante, secondo molti. Insignificante se paragonato al cratere immobilizzato da una centrale nucleare nei suoi dintorni. Il buon senso dice che sarà abbastanza semplice trovare dieci quadratoni o equivalente, mentre sarà impossibile trovare dieci regioni che dicono di sì a un sito nucleare. L’obiettivo «pre-Fukushima» dell’Unione Europea era del 20% dell’energia totale consumata originata da rinnovabili. Credo che oggi, seguendo la moderatissima Angela Merkel, si possano perseguire obiettivi ben più ambiziosi, e puntare come la Germania (è ancora un dibattito, ma è prevalente come opinione) al 30% nel 2020 e all’80% nel 2050. Quantità che avrebbero un impatto ben più rilevante sulla bilancia dei pagamenti e quindi sull’autonomia di quelli di un modesto «solo-nucleare».

Da ultimo, la politica. Dal punto di vista nazionale ed europeo, l’operazione Desertec, tutta tedesca, rappresenta il «non-nucleare» per l’export. Desertec mira a costruire nel Nord Africa una enorme potenza elettrica esportabile in Europa, solare ed eolica. È un’operazione importante di politica e di politica economica: si porta lavoro e sviluppo e si creano competenze locali importanti. Si aiuta lo sviluppo democratico locale e si riduce fortemente la dipendenza geopolitica dall’oil/gas. Si getta un ponte felice di interdipendenza.

Per riassumere, il percorso «extra-nucleare» potrebbe essere: a) sviluppare «a tavoletta» circa 20 GW in tre anni fra solare fotovoltaico (PV) e solare a concentrazione (CSP, CFV) – attualmente in primo sviluppo e che consente anche l’accumulo, ovvero risponde all’obiezione banale «ma quando non c’è sole...»; b) accelerare l’eolico, meglio ancora l’eolico offshore, che abbonda, puntando ad almeno 10 GW addizionali a breve; c) e… dare una mano europea e italiana a fare prima, e meglio, Desertec.

Tradotto in salsa italiana, è il programma del neopresidente del Baden-Württemberg, la regione forse più ricca e matura industrialmente d’Europa.