Nonostante un’immagine appannata, la politica conta ancora, a tutte le latitudini. Lo sa bene chi investe al di fuori del perimetro sicuro delle grandi economie occidentali. E’ logico quindi che un’esplorazione di ciò che si muove oggi in Sudafrica cominci dalle elezioni del 7 maggio, quando venticinque milioni di elettori sudafricani saranno chiamati alle urne per rinnovare il Parlamento e le assemblee legislative delle nove province in cui è suddiviso il paese.
A pochi mesi dall’ultimo saluto a Nelson Mandela, a riaccendere i riflettori su quella che, nonostante il recente sorpasso contabile da parte della Nigeria, resta la motrice economica del continente africano è la coincidenza tra la tornata elettorale e le celebrazioni per i vent’anni dalla fine dell’apartheid: dal quel 27 marzo 1994 in cui per la prima volta tutti gli abitanti del paese, africani, bianchi, coloured (meticci) e indiani, si misero in fila senza distinzioni di razza per partecipare insieme al rito elettorale.
Come in tutte le tornate precedenti, anche stavolta ci sono pochi dubbi sul vincitore. Il voto riporterà al governo l’African National Congress (ANC), il partito sorto dal movimento di liberazione nero guidato da Mandela, che, forte del sostegno compatto della maggioranza africana, dal 1994 ha sempre dominato tutte le elezioni con percentuali comprese tra il 63 e il 70%. Il suo leader nonché Presidente uscente, Jacob Zuma, sarà eletto per la seconda volta alla guida del Paese.
Eppure, un risultato in linea con il passato, questa volta, rischia di essere salutato come una sorpresa. Il motivo va cercato in quel meccanismo delicato e complesso, legato alla fame di certezze dei mercati finanziari, che è la gestione delle aspettative da parte dei media internazionali. Nell’ultimo anno, infatti, le analisi circolanti in tutto il mondo avevano alimentato l’attesa di un netto calo di consensi per l’ANC. Eletto Presidente nel 2009, Zuma non ha mai goduto del supporto che l’opinione pubblica internazionale aveva riservato ai suoi predecessori. Poligamo e fiero del suo retroterra etnico zulu, Zuma si era contrapposto al tecnocratico e afro-saxon Mbeki proprio per i suoi toni radicali, populisti e africanisti, graditi all’elettorato africano più povero ma assai meno ai mercati internazionali. I quali si erano affrettati a vedere nei fischi indirizzati verso di lui durante il Mandela Memorial (in realtà, organizzati da una fazione dell’ANC del Gauteng) la prova che la sua leadership fosse stata colpita a morte dagli scandali che avevano investito la sua vita personale e messo in luce relazioni pericolose con imprenditori e faccendieri che circondano una classe politica sempre meno amata dai sudafricani.
Se alcuni osservatori insistono ancora nell’accreditare l’ANC di un risultato inferiore al 60%, i sondaggi degli ultimi mesi hanno dato il partito di Zuma in costante ripresa, attribuendogli addirittura un risultato vicino a quello (ottimo) conseguito nel 2009. Le stesse previsioni danno in crescita anche il principale partito di opposizione, la Democratic Alliance (DA), erede dell’opposizione bianca anglo-liberale all’apartheid. Con ogni probabilità, grazie al sostegno dell’elettorato bianco e di quello della minoranza coloured, la DA conserverà il controllo del Western Cape, la provincia incentrata su Cape Town dove si concentrano terziario avanzato, buona parte del turismo e industria vinicola. Dal 17% del 2009, la DA salirà ad una soglia compresa tra il 20 e il 25%, approfittando dello sfaldamento del COPE (un partito di transfughi dall’ANC salito brevemente alla ribalta nel 2009) e dell’immagine positiva di Helen Zille, la giornalista ed ex-attivista anti-apartheid che la guida dal 2007. Tuttavia, si dimostrerà incapace, ancora una volta, di contendere all’ANC le frange dell’elettorato africano, soprattutto i giovani e i disoccupati, che appaiono maggiormente deluse dalla incapacità del governo di combattere povertà e disoccupazione.
Quello dell’incapacità dei partiti di opposizione a sfondare il muro che separa la minoranza bianca (tra il 10 e il 12% della popolazione) dalla maggioranza africana è un problema su cui gli analisti litigano da anni. Se i conservatori criticano la fedeltà “sentimentale” degli elettori africani verso il vecchio movimento di liberazione, i liberal puntano il dito sulla debolezza delle “credenziali anti-apartheid” della DA, nonostante i tentativi di candidare personalità nere rassicuranti ma prive di una vera base elettorale (da ultimo, l’ex-compagna di Steve Biko e ex-direttore del World Bank Mamphela Ramphele). La vera risposta, in realtà, si trova nella obiettiva, siderale distanza tra gli interessi e le esperienze di vita delle masse africane e quelli di una comunità bianca del tutto integrata con il mondo occidentale nei suoi valori e standard di vita, da cui dipendono tuttora quasi tutte le connessioni del paese con l’economia globale e sulla quale già oggi grava il carico fiscale necessario per far funzionare il welfare pubblico.
Non stupisce quindi che il voto tra i diseredati neri si diriga piuttosto verso il nuovo partito, gli Economic Freedom Fighters (EFF), fondato da Julius Malema, il controverso ex-leader della federazione giovanile dell’ANC, che gli ultimi sondaggi accreditano di un risultato tra il 5 e il 12%. Proveniente dal poverissimo e periferico Limpopo, noto per il suo linguaggio politicamente scorretto e il suo programma di nazionalizzazioni, Malema entrerà in ogni caso nel sistema, dove svolgerà il ruolo di “tribuno della plebe” con il compito di pressare l'ANC da sinistra.
Quella che appare lontanissima è la prospettiva di un’alternanza al governo, che la teoria più in voga tra gli analisti internazionali si ostina a vedere ancora come passaggio necessario per la “normalizzazione” della democrazia sudafricana. Nemmeno la spaccatura dell’ANC tra un’ala moderata e tecnocratica e una più radicale vicina ai lavoratori e al sindacato, attesa da anni dai commentatori, sembra imminente. Il punto è che né la DA né l’EFF né qualsiasi altra forza di opposizione sembrano oggi offrire, sul piano ideologico e programmatico prima ancora che su quello dei numeri, un’alternativa realistica alla formula politica e al blocco sociale ed etnico-culturale su cui poggia l’egemonia dell’ANC e che in questi vent’anni, bene o male, ha garantito agli investitori interni e internazionali la stabilità di una governance economica in linea con i principi dell’ortodossia monetarista e con le aspettative dei mercati.
Torneremo su questo. Sul piano politico, se qualcosa si muoverà nella prossima legislatura, probabilmente non sarà nella direzione di un’alternanza di governo “all’occidentale” (o “all’anglo-americana”). Un’erosione anche parziale dell’ampia maggioranza fin qui goduta dall’ANC, se si verificherà effettivamente, potrebbe indurre il partito di governo ad accettare formule di collaborazione con i partiti di opposizione, magari a livello provinciale o locale, che potrebbe segnare un primo allontanamento dal modello maggioritario.
Il risultato, questo sì inatteso, potrebbe essere il ritorno di modelli politici che, fino agli anni Novanta, gli analisti consideravano più adatti alle “società divise” e che in Sudafrica erano stati abbandonati con la liquidazione del governo di unità nazionale tra ANC e NP – Il National Party, partito erede del governo degli Afrikaner, che poi ha formato con altri il DA - nel 1996: quelli basati su governi di large intese e sul principio del power-sharing, in cui la rappresentanza di tutte le “tessere” del mosaico culturale sudafricano potrebbe combinarsi con forme più inclusive e consensuali (“consociative”) di corresponsabilità politica.
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