Il documento presentato dal ministero della Difesa americano, Chuck Hagel, riflette la volontà del Pentagono – con un budget di 496 miliardi di dollari – di tagliare i costi del personale e di investire sulla tecnologia (1): il risultato è che, entro l’anno fiscale 2015, le forze armate americane arriveranno a contare soltanto 440 mila persone (ora ce ne sono 570 mila), quante ce n’erano prima dell’attacco di Pearl Harbor, per intenderci.
Se il Congresso non dovesse approvare il budget, o se dovesse presentarsi un altro caso di sequestro – ossia nel caso di blocco dei pagamenti perché si è raggiunto il tetto del debito – entro l’anno fiscale 2016, quel numero potrebbe scendere ulteriormente, a 420 mila persone (2). Ironia vuole che a governare questi tagli sarà il capo delle Forze Armate, quel generale Odierno (che molti soprannominano “Shrek”) che ha fatto chiarmente sapere in passato che un esercito con meno di 440 mila persone è un esercito che non sta in piedi (3).
Ma queste sono faccende che lo stesso Hagel, nominato da Obama proprio perché repubblicano e perché abbastanza cinico da fare i tagli necessari, dovrà discutere con il Congresso. Quel che conta è la logica che sta dietro ai tagli.
L’esercito americano che verrà sarà più moderno e flessibile e tecnologicamente avanzato, un esercito che potrà combattere soltanto una guerra convenzionale alla volta, non due simultaneamente com’è sostanzialmente l’assetto attuale.
La strategia è precisa: non impegnarsi più in conflitti lunghi e onerosi, soprattutto non impelagarsi più nel “national bulding”, che è un’attività dispendiosa quanto poco remunerativa (ed eppure necessaria). Come scrive il Financial Times, concordando con questa visione più snella ma più forte del Pentagono, in Afghanistan ed Iraq, “dopo 2.313 americani morti e più di un trilione di dollari spesi, il ritorno sull’investimento è pessimo” (4).
I tagli non registrano quindi soltanto l’inevitabile adattamento all’austerità, ma anche la volontà della Casa Bianca di evitare conflitti e, nel caso siano inevitabili, di strutturarli in modo che conti, per la vittoria, più la tecnologia che il capitale umano. In passato questa logica era stata applicata dall’ex capo del Pentagono Rumsfeld, con la famosa “guerra leggera” in Iraq dopo la caduta di Saddam: fu un disastro, e quella stessa amministrazione decise poi di cambiare totalmente strategia aumentando le truppe sul campo (il “surge” del generale David Petraeus).
E’ vero però che a oggi la strategia di politica estera obamiana risponde più a una logica “leggera”: la guerra in Iraq è stata chiusa e in Afghanistan, in seguito alle ormai incontrollabili sortite del presidente Hamid Karzai, è possibile che il ritiro americano sia completo entro l’anno (non è detto che il ritiro delle truppe sia comunque a costo zero: alcune stime della Difesa italiana, per esempio, dicono che il ritiro del nostro contingente costerà 100 milioni mentre i costi della nuova missione di sostegno per le forze afghane saranno pari a 250 milioni l’anno).
E’ anche vero che buona parte delle operazioni militari di questi ultimi anni è stata gestita con i droni, che sono poco costosi sia come apparecchi sia come personale (il pilota del drone, che sta nelle basi, spesso basi in America, viene pagato molto meno di un pilota di un aereo di guerra). In sintesi: la politica estera obamiana è strutturata in modo da poter resistere anche con un esercito più snello, sempre salvo imprevisti.
Per quel che riguarda il declino americano, che è l’altro lato della medaglia dei tagli ai costi del Pentagono, per ora si puà stare tranquilli: Obama forse anela a un certo isolazionismo, ma i dati disponibili fino al 2012 dicono che il budget delle forze armate americane supera quello combinato delle 10 altre nazioni più armate del mondo (5).
(5) http://www.businessinsider.com/chart-of-defense-spending-by-country-2014-2
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