A un decennio dall’inserimento nel sistema giuridico del contratto di rete, vediamo se è stato davvero utilizzato e con quali risultati
Il contratto di rete è uno strumento di cooperazione tra imprenditori, introdotto in Italia nel febbraio 2009 con l’articolo 3, comma 4-ter e seguenti del decreto legislativo n.5 e modificato a più riprese negli anni successivi. Il complesso iter seguito dal legislatore (Figura 1) sembra indicare che si tratti di un mezzo idoneo al rilancio dell’economia italiana, capace di rivitalizzare il sistema produttivo imprenditoriale in una situazione di crisi internazionale e di globalizzazione dei mercati.
Il coordinamento di diverse attività economiche attraverso una rete comporta, infatti, un valore aggiunto che può tradursi, per le singole organizzazioni aziendali coinvolte, in crescenti livelli di capacità innovativa e di competitività sul mercato.
Il ricorso a forme di economia condivisa (Sharing economy) supplisce, difatti, ai limiti organizzativi e cognitivi dei singoli e consente l’accesso a risorse finanziarie, immateriali e tecnologiche altrimenti precluse ed è particolarmente opportuno in Italia, dove il tessuto produttivo è prevalentemente composto da piccole e medie imprese (come risulta dalle rilevazioni dell’ultimo Censimento Istat riportate nella Figura 2).
Ad ormai un decennio dall’inserimento nel sistema giuridico di questo modello organizzativo aziendale, è utile fare il punto della situazione, per comprendere se e come lo strumento del contratto di rete è stato davvero utilizzato dagli imprenditori, con quali risultati e quali ulteriori provvedimenti possono migliorare la situazione.
Natura, limiti ostativi e adempimenti
Il contratto di rete è un particolare strumento con cui più imprenditori perseguono lo scopo di accrescere, individualmente e collettivamente, la propria capacità di accesso, permanenza e sviluppo sul mercato. Operativamente, i soggetti coinvolti si obbligano, quindi, a collaborare in forme e in ambiti predeterminati attinenti all’esercizio delle proprie imprese, scambiandosi informazioni e/o prestazioni di natura industriale, commerciale, tecnica o tecnologica, ovvero esercitando in comune una o più attività rientranti nell’oggetto della propria impresa.
Come si è detto, le dinamiche di concentrazione consentono alle aziende coinvolte di ampliare la propria dimensione e, quindi, la competitività sul mercato, ma impongono anche la condivisione del controllo e dell’esercizio d’impresa e, come è noto, il tessuto economico italiano è caratterizzato invece, storicamente e culturalmente, da una certa resistenza in questo senso. Così, nel tentativo di coniugare due interessi di fatto contrapposti, il contratto di rete assicura una flessibilità tale da salvaguardare anche l’autonomia imprenditoriale dei singoli. Una volta costituita la rete (che è soggetta a iscrizione nella sezione del registro delle imprese presso cui è iscritto ciascun partecipante e ha efficacia dall’ultima delle iscrizioni), è possibile, ad esempio, includere anche professionisti, purché, a tutela dei terzi, siano esclusivamente gli imprenditori a svolgere le attività esterne. Inoltre, è possibile l’istituzione di un fondo patrimoniale comune e la nomina di un organo comune incaricato della gestione ed è obbligatorio redigere un programma apposito che elenchi diritti, doveri e conferimenti dei contraenti (Maio e Sepe, 2016, Il Mulino). Rispetto alla delicata fase dello sviluppo e del mantenimento di relazioni fiduciarie, poi, una rassegna di casi ha codificato i meccanismi che ricorrono comunemente nella prassi (nella Figura 3 ne sono riportati alcuni esemplificativi).
Diffusione e caratteristiche delle imprese retiste
L’effettiva diffusione dello strumento, invece, mostra innanzitutto che il trend è nettamente positivo (Figura 4) e, a livello nazionale, non si assiste alla solita differenziazione territoriale Nord-Sud, con il Centro Italia che tende ai primi posti (Figura 5). Un’analisi volta a comprendere se il numero delle reti sia strettamente correlato ai finanziamenti ad hoc ha concluso che, a livello nazionale, la dipendenza dai contributi pubblici è solo relativa ma, a livello di singole regioni, l’esistenza di “forme di accompagnamento” per lo sviluppo di contratti di rete è risultata significativa per un maggiore ricorso allo strumento in esame (Negrelli e Pacetti, 2016, Il Mulino). I modelli organizzativi che si fondano sulla cooperazione tra più attori economici sono molteplici (tra cui i distretti industriali, i cluster e le filiere) ma non alternativi e, rispetto ad essi, il contratto di rete, in virtù della formalizzazione giuridica, mostra livelli di collaborazione e reciprocità più intense che superano i limiti riconducibili alla localizzazione o al settore economico di riferimento (Negrelli e Pacetti, op. cit.).
Da scopi strettamente economici a collaborazioni nell’ambito del secondo welfare
Tra gli obiettivi perseguiti dichiarati dalle imprese risultano prioritari l’internazionalizzazione, l’innovazione e lo sviluppo (Figura 6), ma è interessante osservare che, oltre agli utilizzi strettamente economici previsti in origine, di fatto i Network di imprese hanno fatto ricorso al contratto di rete anche per finalità relative a prestazioni sociali, adottando questo strumento per consentire alle singole retiste di offrire programmi di conciliazione vita-lavoro e di welfare aziendale che, date le ridotte dimensioni, risultano più difficili da elaborare .
Il primo caso in questa direzione si è riscontrato in Lombardia, dove, nel 2011, un gruppo di imprese hanno realizzato congiuntamente le economie di scala necessarie ad ottimizzare le competenze tecnico-organizzative dei singoli componenti e le sinergie attivate sul territorio. I servizi così offerti riguardano tutte le aree di intervento dei programmi family friendly (lungo le tre direttive lavoro - risparmio - tempo, con progetti di mobilità car sharing e car pooling, forme di finanziamento o di assicurazione agevolate e convenzioni per i servizi di educazione dei figli e di cura di familiari anziani o con disabilità). Nel tempo, questa rete ha visto un’evoluzione del proprio focus da interno all’organizzazione ad esterno, coinvolgendo anche molti soggetti terzi di portata sovra-aziendale (Associazioni datoriali e sindacali) e territoriale (PA e Terzo Settore), iniziando a considerare le esigenze dei membri della comunità esterna e concorrendo alla realizzazione di percorsi di inserimento nel mondo del lavoro di categorie deboli (under29 e neo-mamme) e di mappatura delle aspettative di freelance e start-upper locali.
Oltre alla prima sperimentazione citata, sul territorio nazionale negli ultimi anni ne sono state attivate altre, soprattutto in Trentino Alto Adige e in Emilia Romagna.
Considerazioni conclusive sull’efficacia e sulle prospettive
Vista la diffusione in Italia (3.985 casi alla fine del 2017), un’analisi dell’efficacia del contratto di rete porta a concludere che si tratta di uno strumento rispondente alle esigenze del tessuto imprenditoriale italiano. Infatti, così, non solo si sono rispettate le diffuse esigenze di autonomia imprenditoriale e di flessibilità burocratica di cui si è detto, ma, soprattutto, si è focalizzata l’attenzione sulla necessità di programmi di sviluppo per consentire percorsi di crescita aziendale che siano comuni, con il risultato che le imprese retiste presentano performance migliori in termini di produttività, efficienza, interconnessione, innovazione e orientamento all’estero rispetto alle analoghe non incluse in Network (Istat, RetImpresa e Centro Studi Confindustria, 2017). Un ulteriore riscontro positivo può essere visto infine nelle misure adottate per promuovere il contratto di rete da parte della Pubblica Amministrazione (che ha disposto misure agevolatrici a livello nazionale, regionale e locale e del Sistema Finanziario (che ha previsto condizioni di favore in caso di programmi di sviluppo particolarmente pregevoli).
Nella Figura 7 sono indicati i principali rami di attività delle imprese retiste: per il futuro, poi, ci si aspetta che le reti svolgano un ruolo di ulteriore incentivo all’innovazione e alla digitalizzazione, soprattutto nel settore manifatturiero e servizi avanzati all’interno del programma Industria 4.0, che abbiamo analizzato in una precedente scheda.
© Riproduzione riservata