I cittadini autoctoni dovrebbero godere di un accesso privilegiato al welfare? Cosa è cambiato dal 1992 a oggi?

A ridosso delle elezioni europee del 26 maggio, il tema del welfare è uno dei cavalli di battaglia per un’Europa che da varie parti si desidererebbe ‘diversa’.
I welfare state nazionali, in effetti, sono stati istituiti e si sono sviluppati durante un’epoca caratterizzata da un elevato grado di omogeneità culturale ed etnica. Negli ultimi decenni, invece, la costante crescita della mobilità intra- ed extra-comunitaria nell'Europa occidentale da un lato, e la crisi dei rifugiati del 2015 dall’altro, hanno introdotto elementi di varietà culturale nelle nostre società, riducendo il consenso popolare per politiche redistributive ritenute indiscriminate.
Questo articolo presenta perciò un'analisi dell'idea secondo cui i cittadini autoctoni dovrebbero godere di un accesso privilegiato alle prestazioni disponibili di natura sociale, e per farlo ci si riferisce a due contesti storici ben precisi: nel 1992, poco prima della firma del Trattato di Maastricht, e nel 2016, all'indomani della grande recessione, delle crisi dell'Eurozona e di Schengen, nonché del referendum sulla Brexit.

Uno scenario politico in trasformazione: l’importanza crescente dell’integrazione europea e dell’immigrazione

Nel corso degli ultimi due decenni, l’integrazione europea e l’immigrazione sono diventati i due pilastri intorno ai quali si è ristrutturata la competizione politica europea: la politicizzazione dell’Unione è difatti gradualmente aumentata a partire dai primi anni ‘90, raggiungendo un picco in occasione degli avanzamenti relativi al percorso di integrazione, come, per esempio, la firma del Trattato di Maastricht.
Di conseguenza, nell’epoca post-Maastricht, l’opinione pubblica ha oscillato passando da un atteggiamento di “consenso permissivo” (“permissive consensus”, ndt.) a un “dissenso limitante” (“constraining dissensus”, ndt.) nei confronti del percorso di integrazione. Tale cambiamento è però avvenuto parallelamente allo sviluppo di un’altra dinamica istituzionale: con l’introduzione di diritti di natura sociale transfrontalieri, si è messa in discussione la logica tipica (e storica) di creazione di legami (“bonding”) e delimitazioni (“bounding”) tipici della formazione dei welfare state nazionali (Ferrera, 2005; 2014).
Allo stesso tempo, l’immigrazione di cittadini Ue ed extra-Ue è diventato un tema centrale nel dibattito sul processo di integrazione europea. Ciò si spiega non solo con la “crisi migratoria” del 2015, ma anche con la maggiore mobilità intra-europea. È importante sottolineare, in questi anni, anche il formarsi di nuovi flussi migratori verso Paesi storicamente considerati “di emigrazione”, come Italia, Spagna, Grecia, Ungheria e Polonia (Geddes and Scholten, 2016).

Lo sciovinismo del welfare nel tempo: un nuovo senso di comunità?

Alle trasformazioni descritte precedentemente, ha fatto seguito, in tutta Europa, un incremento del sostegno a politiche anti-immigrazione e per partiti euroscettici critici del multiculturalismo.
In particolare, la costante crescita della mobilità e delle migrazioni internazionali sono diventate il punto focale di dibattiti sul futuro dell’Unione europea e dei sistemi di welfare nazionali, con appelli a politiche che rivendicano un principio di “esclusione” : in un contesto del genere, è diventata “legittima” la richiesta per cui le prestazioni sociali erogate da uno Stato debbano essere riservate a gruppi sociali specifici, in particolare a chi appartiene “veramente” alla nazione di riferimento.
Questa posizione può essere definita come una forma di “sciovinismo del welfare”. Recentemente, tali attitudini hanno ricevuto un particolare interesse da parte dell’accademia (van der Waal et al., 2010; Mewes and Mau, 2012; Hjorth, 2016; Kootstra, 2016). Lo sciovinismo del welfare promuove il “nativismo” come principio fondante delle politiche sociali: l’appartenenza al gruppo degli “aventi diritto” è determinato dalla cittadinanza, dall’etnia, finanche da concetti parametrizzati di “razza” o religione”. Ne sono, invece, esclusi il gruppo degli stranieri che, al limite, dovrebbero ricevere un supporto limitato.
Le posizioni di chiusura verso il welfare sono qui misurate attraverso una domanda utilizzata sia nell’Eurobarometro del 1992, sia nel sondaggio REScEU del 2016:

Quale tra queste tre affermazioni sull'accesso alle prestazioni e ai servizi sociali da parte di cittadini stranieri è più vicina alle sue opinioni personali?

  1. Tutti i cittadini stranieri, legalmente residenti in Italia, dovrebbero godere dello stesso diritto che hanno gli italiani di accedere alle prestazioni e ai servizi sociali
  2. Solo i cittadini di altri Stati Membri dell'Unione Europea dovrebbero godere dello stesso diritto che hanno gli italiani di accedere alle prestazioni e ai servizi sociali
  3. Solo i cittadini italiani dovrebbero godere del diritto di accedere alle prestazioni e ai servizi sociali

Nell’analisi delle risposte, prendiamo come riferimento i 5 Paesi più significativi dell’Unione Europea: Francia, Germania, Italia, Spagna e Regno Unito. Si tratta degli Stati più grandi, sia in termini di popolazione, che di prodotto interno lordo (PIL). Questi sono anche gli stati che ospitano circa 3 persone su 4 della popolazione migrante dell’Unione e, inoltre, sono anche i Paesi che nel 2016, hanno, da un lato, ricevuto il più alto numero di immigrati e, dall’altro, rilasciato il volume più cospicuo di certificati di cittadinanza.
In funzione delle risposte date al quesito, possiamo definire tre categorie di attitudini/cittadini:

  • I cosmopoliti: le persone che credono che indipendemente dagli status di cittadinanza, l’accesso a servizi di welfare debba essere garantito a chiunque (risposta 1);
  • Gli europoliti: le persone che sostengono che la cittadinanza di un Paese dell’Unione europea sia un parametro chiave per definire chi ha diritto a benefit di natura sociale in un altro Stato dell’Ue (risposta 2);
  • Gli sciovinisti: le persone che rivendicano che soltanto i cittadini del Paese di riferimento abbiano diritto di accesso alle prestazioni sociali (risposta 3).

La Figura 1 e la Figura 2 mostrano le distribuzioni delle tre categorie nei 5 Paesi, sia nel 1992 che nel 2016.
Nel 1992, in tutti i Paesi analizzati, l’opzione più inclusiva otteneva una maggioranza relativa di consensi. I livelli più elevati di cosmopoliti si erano registrati in Italia (65%) e Spagna (78%), principalmente Stati “di emigrazione” all’epoca del sondaggio.
Già nel 1992 i cittadini di Regno Unito, Germania e Francia, erano meno propensi ad “aprire” i propri sistemi sociali agli stranieri.
Se si guarda ai numeri del 2016, appare evidente come la quota di “cosmopoliti” sia diminuita in maniera consistente. Ad eccezione del Regno Unito, gli altri Paesi hanno vissuto quello che possiamo definire un “ricalibramento” delle attitudini verso l’opzione intermedia dell’ “europolitismo”. Questo dato sembra suggerire come negli ultimi anni l’immigrazione extraeuropea sia diventata un tema che preoccupa maggiormente i cittadini dell’Unione. D’altro canto, questi numeri suggeriscono anche l’emergere e ri-delimitazione di una nuova forma di comunità, non nazionale, bensì europea. L’intreccio tra maggiore integrazione sovranazionale e mobilità intra-europea potrebbe aver favorito la creazione di nuovi legami tra i cittadini degli stati membri (dell’Ue) e tratteggiato nuovi confini per l’accesso ai servizi di welfare nazionali.
Tra il ‘92 e il 2016 gli sciovinisti sono scesi in Francia e Germania e sono rimasti pressoché invariati in Italia (con una lieve flessione); al contrario è aumentata la proporzione di sciovinisti sia in Spagna che nel Regno Unito. Nel caso spagnolo, il dato di partenza era estremamente basso, mentre nel Regno Unito l’aumento non è sorprendente se si pensa alla centralità del tema “immigrazione” (anche proveniente da Paesi Ue) nelle dinamiche politiche che hanno portato al referendum sulla Brexit: evidentemente tra i cittadini inglesi il tema era comunque piuttosto sentito

Cosa spiega le differenze tra Paesi?

A questo punto, vale la pena cercare di capire se esistano fattori legati ai singoli Paesi che possano spiegare le diverse distribuzioni delle attitudini verso l’accesso ai servizi di welfare. La Figura 3 e la Figura 4 riportano misure di correlazione tra le differenze nelle categorie dei “cosmopoliti”, “europoliti” e “sciovinisti”, da un lato, e caratteristiche di sistema, dall’altro: la percentuale di stranieri (Ue ed extra-Ue), il tasso di disoccupazione, e la quota di spesa sociale in proporzione al Pil (in termini di benefit, sia subordinati a condizioni di reddito/status, che non).
Il quadro che otteniamo, per il ‘92, è in linea con le tesi che vedrebbero le attitudini di natura “sciovinista” correlati a una maggiore presenza di immigrati. Ma lo scenario del 2016 non sembra rispecchiare tale prospettiva: soltanto la quota di immigrati extra-Ue è caratterizzata da coefficienti di correlazione significativi. Inoltre, la direzione della correlazione è negativa e, quindi, contro-intuitiva: Paesi con una maggior quota di immigrati extra-Ue tendono ad avere una percentuale più elevata di cittadini cosmopoliti. Questi numeri sembrano indicare che le attitudini verso i migranti non sono necessariamente legate ai tassi reali di immigrazione, come già indicato in un precedente articolo sul tema pubblicato su EuVisions, l’Osservatorio sull’Europa del progetto europeo Resceu/Centro Einaudi e Università di Milano. 
Se invece si guarda all’associazione tra i tassi di disoccupazione, si può osservare la stessa dinamica sia nel ‘92 che nel 2016: un Paese con maggiore disoccupazione tende ad avere visioni più cosmopolite e meno scioviniste. Si tratta di un risultato interessante che suggerisce che, a livello aggregato, le logiche di interesse individuali possono prendere la via, per così dire, dell’ “apertura”, invece che della “chiusura”. Detto in altri termini, e calando i risultati nel linguaggio politico-istituzionale contemporaneo, i cittadini di Paesi con alti tassi di disoccupazione potrebbero essere disponibili a sfruttare i benefici del Mercato unico europeo.

Guardando infine all’associazione con la spesa sociale, l’unico parametro per il quale troviamo, sia nel ‘92 che nel 2016, una correlazione positiva con l’incremento di visioni scioviniste, è la quota di spesa sul Pil in servizi di welfare “condizionati”: quando un Paese spende di più in benefit sociali subordinati a condizioni di reddito, i cittadini dello Stato di riferimento, tendono ad avere visioni più scioviniste. Un dato che sembra avvalorare la logica e teoria della competizione per risorse scarse.
Concludendo, l’evidenza empirica qui illustrata suggerisce che, in un contesto in cui quote sempre maggiori di cittadini sono preoccupati dell’immigrazione extra-Ue, forme di solidarietà cosmopolita si sono indebolite.
Contemporaneamente, il grado di accettazione della condivisione di diritti sociali transfrontalieri con i vicini europei è aumentato, quasi a ridefinire un nuovo senso di comunità che potremmo chiamare europolitismo, che è il risultato più positivo in questo periodo così tormentato.
Infine, nel corso degli anni è emerso un quadro complesso di interazioni tra fattori sistemici e logiche di interesse individuale, in cui le attitudini di chiusura si diffondono nei paesi con tassi di disoccupazione relativamente più bassi e maggiore spesa sociale cosiddetta “condizionata”. 

 

Traduzione a cura di Alexander Damiano Ricci

Versione originale in inglese e fonti complete su EuVisions