La responsabilità sociale d’impresa è considerata uno strumento sempre più strategico per la realizzazione di una società competitiva e coesa

La responsabilità sociale d’impresa (o Corporate Social Responsibility) è parte dell’Agenda dell’Unione Europea dal Consiglio Europeo di Lisbona del marzo 2000 ed è considerata uno strumento strategico per la realizzazione di una società competitiva e coesa. Ponendo attenzione ai rapporti con i propri stakeholder e realizzando azioni concrete nei confronti di fornitori, collaboratori e clienti, le aziende possono adottare delle politiche che conciliano gli obiettivi economici con le esigenze sociali ed ambientali delle comunità di riferimento e, così, concorrere alla sostenibilità futura dei modelli di sviluppo.

Considerando il panorama europeo, tra le aziende si attesta una crescente e consistente attenzione al tema della sostenibilità (in meno di un quinquennio le scelte di investimento green sono cresciute dal 3,4% al 30%, secondo i dati Eurosif) e in Italia, l’Osservatorio Socialis (2018) registra che oltre l’85% delle imprese è eticamente orientato, con un investimento totale prossimo ad un miliardo e mezzo di euro, soprattutto per interventi di miglioramento energetico (Figura 1). Il trend della diffusione delle CSR è dunque in crescita e, dopo la contrazione registrata durante gli anni della crisi economica, le cifre investite sono in aumento (Figura 2). Tra i comparti economici, si notano alcune peculiarità congruenti con le attività core. In campo chimico-farmaceutico, ad esempio, l’attenzione è posta principalmente al benessere delle aree limitrofe agli stabilimenti, mentre il settore finanziario è maggiormente focalizzato sulle attività interne all’azienda stessa. E’ qui che il ventaglio di azioni socialmente responsabili risulta più ampio (una media di 4,5 diverse attività), seguito dalla meccanica auto (con una media di 4,0 diverse attività), dall’industria manifatturiera e farmaceutica e dal commercio (3,9 diverse attività).


Secondo la Commissione Europea (2011) “essere socialmente responsabili significa non solo soddisfare pienamente gli obblighi giuridici applicabili, ma anche andare al di là investendo di più nel capitale umano, nell’ambiente e nei rapporti con le altre parti interessate. L’esperienza acquisita con gli investimenti in tecnologie e prassi commerciali ecologicamente responsabili suggerisce che, andando oltre gli obblighi previsti dalla legislazione, le imprese aumentano la propria competitività”.
Ciò perché i comportamenti socialmente responsabili contribuiscono significativamente a legittimare l’azienda, grazie ad una maggiore partecipazione interna ed a migliori relazioni di lungo termine con gli stakeholder. Le motivazioni a comportamenti etici non sono tuttavia del tutto opportunistiche. Secondo Ekington (1994), nel momento in cui si prende una decisione di tipo aziendale, è impossibile distinguere perfettamente gli effetti economici dalle conseguenze sociali ed ambientali. Infatti, per Porter e Kramer (2011), il mercato stesso è definito tanto dai bisogni economici quanto dai bisogni sociali. L’interconnessione è quindi stretta, dato che, da un lato, l’azienda ha bisogno di una comunità in buona salute, non solo per creare domanda per i suoi prodotti, ma anche per avere un ambiente favorevole.
D’altro lato, la comunità ha bisogno di imprese di successo per mettere a disposizione dei suoi membri posti di lavoro ed opportunità di creazione di ricchezza. L’obiettivo comune diviene dunque generare valore condiviso, posto che i danni sociali ed ambientali comportano costi generalizzati.

Così, una decisione è etica se soddisfa contemporaneamente le tre variabili Persone, Pianeta e Profitti (note come “3P”) postulate da Hall (2011). Le pratiche di lavoro utilizzate quindi devono essere corrette (monitorando che ciò avvenga lungo tutta la catena del valore) e l’impresa è tenuta a contribuire per migliorare il benessere della comunità anche sostenendo in prima persona interventi di welfare, in linea con i 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile (anche noti come SDGs, Sustainable Development Goals) approvati dalle Nazioni Unite nell’Agenda 2030. Per le aziende sono dirimenti anche le priorità espresse dai consumatori (Figura 3), che risultano fortemente preoccupati per l’ambiente (Figura 4) e orientati a rivedere le scelte di acquisto a favore di prodotti a ridotto imballaggio e impatto energetico, nonché ricavati da materiali riciclati (Figura 5), anche a prescindere dal prezzo di vendita.
Allo scopo di avvalorare l’impegno delle aziende in ambito sociale, nel tempo il mercato ha sviluppato strumenti ad hoc, come gli Standard Social Accountability, i Dow Jones Sustainability Indices, i Social Rating and Auditing e i premi alla responsabilità sociale d’impresa. Complessivamente, i cardini per realizzare un approccio etico sono stati delineati dalla Dichiarazione sull’Ambiente e sullo Sviluppo (1992) in una serie di principi: responsabilità (ovvero prefigurare anticipatamente e considerare gli effetti delle proprie azioni), precauzione (tutela nell’attesa di conclusioni scientifiche certe sui rischi connessi all’uso di un prodotto o di un processo), prevenzione (agire per evitare un danno), partecipazione (coinvolgimento e accesso alle informazione per tutti i cittadini), cooperazione (reciproca assistenza a livello internazionale, nazionale e locale).

Alla luce di tutto ciò, il lending network di imprese impegnate nella Corporate Social Responsibility CSR Europe, di concerto con la Commissione Europea, nel corso del Brussels SDG Summit di maggio 2019, ha lanciato CEOs Call to Action. Si tratta di un appello rivolto ai top manager e alle aziende di tutta Europa che considerano la sostenibilità un aspetto centrale e qualificante del proprio modo di fare impresa. In Italia, promotrice della Call è Fondazione Sodalitas, la prima organizzazione ad aver promosso la RSI in Italia su iniziativa di Assolombarda, attiva dal 1995 per educare alla generazione di valore condiviso, promuovendo la cultura di partnership orientata a costruire un futuro di crescita, sostenibilità, inclusione, coesione e sviluppo diffuso per la comunità, coinvolgendo, oltre alle imprese, anche organizzazioni non profit, enti formativi e istituzioni. Ora, come National Partner Organization di CSR Europe, Fondazione Sodalitas coinvolgerà i leader delle imprese aderenti nell’impegno a realizzare nei 28 Paesi europei un paradigma di sviluppo sostenibile in linea con l’Agenda 2030 delle Nazioni Unite. Aderendo alla CEOs Call to Action, infatti i manager dichiarano la propria intenzione a rafforzare e migliorare dialogo, interazioni e collaborazioni per unire le forze e accelerare la crescita inclusiva, affrontando il cambiamento climatico e creando prosperità sostenibile. Ad oggi, sono già molti i manager che hanno risposto all’appello, come Diana Bracco e Alberto Pirelli, Paolo Piantoni di Confindustria Bergamo e Maurizio de Cicco di Roche Italia. Considerando l’evidente contributo positivo offerto dalle partnership per realizzare iniziative multistakeholder, che, da un lato, consentono di condividere risorse e strumenti e, d’altro lato, promuovono l’integrazione con i territori e le comunità locali in logica di co-operative approach (Bergkamp, 2002) e che solo facendo diventare lo sviluppo sostenibile parte integrante delle strategie aziendali è possibile raggiungere la convergenza delle dimensioni economiche, sociali ed ambientali o sweet spot (Savitv e Weber, 2006), si può concludere che la consistente adesione a CEOs Call to Action (oltre 40 top manager solo nei primi giorni dal lancio della Call avvenuto il 4 giugno) è di buon auspicio e attesta il forte orientamento anche nelle aziende italiane a nuovi modelli di business, prodotti e servizi per un futuro sicuro e sostenibile oltre a mostrare quanto sia forte anche nel panorama economico nazionale il segnale di coinvolgimento nella realizzazione di paradigmi di sviluppo sostenibile auspicato dall’Unione Europea.