Il 2016 sarà probabilmente ricordato come l’anno della grande svolta, in un senso largamente negativo, per l'America latina
Quale futuro attende l’America Latina, stretta tra l’arrivo alla Casa Bianca dell’arci-nemico Donald Trump e una diffusa crisi economico-sociale? Il 2016 sarà probabilmente ricordato come l’anno della grande svolta. Ma in un senso largamente negativo. La maggiore incognita è costituita dagli Stati Uniti. La presidenza è passata da Barack Obama - forse il leader americano che nell’ultimo secolo si è impegnato di più per migliorare le relazioni con il vecchio “cortile di casa”, sforzo culminato nella ripresa dei rapporti diplomatici con Cuba, dopo oltre 50 anni di ostilità e sanzioni economiche - a Donald Trump, che invece accusa il resto del continente di ogni nefandezza.
Il neo-presidente vuole costruire un muro lungo il confine del Messico, definisce “stupratori” e “criminali” tutti i migranti illegali latino-americani, si propone di cacciarne due o tre milioni con precedenti penali e intende denunciare tre accordi di libero scambio stipulati con il resto del continente: il Nafta, il Trans-Pacific Partnership e il Cafta DR (Central America Free Trade Agreement- Dominican Republic). Vero è che solo il primo, riguardante il Messico, è in vigore. Gli altri due, ancora in attesa di ratifica da parte del Congresso, avrebbero però incrementato l’interscambio con l’intero continente. Il danno, per il Cono Sud, ammonterà comunque a molte decine di miliardi di dollari di mancati introiti, ma per il Messico rischia di essere un vero bagno di sangue: l’imposta del 35% sui prodotti di origine messicana, minacciata da Trump, colpirebbe l’80% dell’export totale del Messico, per un valore che, verso gli Usa, nel 2015 è stato di 296 miliardi di dollari. E diverrebbero a rischio ben sei milioni di posti di lavoro. Il tutto con l’obiettivo di limitare il costante passivo commerciale americano, che negli ultimi anni è oscillato tra i 50 e i 70 miliardi di dollari annui, e con il trasparente desiderio di contenere anche le rimesse degli emigrati regolari, che il Wall Street Journal stimava lo scorso anno in quasi 70 miliardi.
L’ostilità di Trump rischia di accentuare una situazione economica in via di degrado fin dall’inizio di questo decennio (Figura 1), con un andamento del Pil negativo nell’ultimo biennio, -0,5% nel 2015 e -1,1% nel 2016, secondo le ultime stime della Banca Mondiale, e incerte speranze che si riprenda nel 2017. Da questa crisi il continente faticherà a uscire, vedendo inoltre ridotto il suo peso internazionale (Figura 2). Tanto che è possibile il ripetersi, per questo decennio, di un’altra “decada perdida”, come furono definiti i durissimi anni 80 del secolo scorso. La causa principale della crisi va ricercata nel generale calo dei corsi delle materie prime, che rappresentano tuttora il grosso delle esportazioni continentali, in particolare del petrolio, di cui Venezuela, Ecuador e Trinidad e Tobago sono i maggiori esportatori. L’indice generale dei loro prezzi nell’ultimo decennio è balzato da 109,93 punti nell’ottobre 2006 a 171,73 nell’aprile 2011 (+56,6%), grazie soprattutto alla domanda dell’Estremo Oriente (in particolare della Cina), per poi tornare di fatto ai livelli di partenza (112,86 punti nell’ottobre scorso, -34,2%). Le quotazioni del greggio, rispetto ai picchi a tre cifre raggiunti nel periodo 2011-14, sono crollate mediamente del 60% (Figura 3).
Il valore delle esportazioni latino-americane nel triennio 2013-2015 è sceso del 13% e quello delle importazioni del 9,6%, a causa soprattutto della debole domanda euro-americana e asiatica. È tornato soprattutto preoccupante il debito estero, che nell’ultimo decennio è balzato da 663 a 1.430 miliardi di dollari e sottopone a nuovi, forti stress i conti finanziari di quasi tutti i Paesi del continente. Il suo servizio, ormai largamente superiore ai 400 miliardi di dollari l’anno, sottrae risorse sempre più rilevanti a quelle spese sociali che inizialmente l’indebitamento aveva concorso ad alimentare, contribuendo a ridurre fortemente, secondo i dati della Banca mondiale, il tasso di povertà dal 41,3% del 2003 al 24,3 del 2013 (Figura 4).
A questi problemi generali, occorre aggiungere il caso disperato del Venezuela. Esso costituisce «il Paese con la peggiore performance mondiale in fatto di crescita e inflazione», come sosteneva nel luglio scorso Alejandro Wernee, direttore per l’Emisfero occidentale del Fondo monetario internazionale. Il crollo del Pil (-10% nel 2016, culmine di un “quinquennio nero") e della rendita petrolifera (che dà origine al 25% della ricchezza nazionale e al 95% delle esportazioni) ha determinato la fine delle politiche di generosa redistribuzione verso le fasce sociali più deboli. Il deficit di bilancio è schizzato al 15% del Pil e l’aumento dei prezzi, ormai fuori controllo, oscilla intorno al 700% effettivo, contro il 270% ufficialmente stimato. Questo quadro economico devastante ha causato un grave depauperamento generale (la popolazione “estremamente povera” tra il 2013 e il 2015 è balzata dal 10% al 55% del totale) (Figura 5), spaccando il Paese tra governo e opposizione, che si fronteggiano ormai da tempo sull’orlo della guerra civile.
Il rifiuto pretestuoso (presunti brogli nella raccolta delle firme) di permettere un referendum per la revoca del mandato del presidente Maduro ha inoltre provocato, in dicembre, la sospensione del Paese dal Mercosur, il più solido progetto di mercato comune continentale: segno di un isolamento ormai totale a livello continentale.
Ma l’America latina è afflitta anche da altri due mali antichi. Il primo è costituito dalla violenza sociale dirompente, generata soprattutto dagli enormi squilibri nella distribuzione della ricchezza, solo in parte attenuati dai ricordati progressi nella lotta alla povertà. Una recente indagine della Banca Mondiale rivela che la delinquenza latino-americana ha raggiunto livelli inusitati in confronto agli altri continenti: rispetto a una popolazione che è appena il 9% del totale mondiale, vi si registra il 30% degli omicidi complessivi (Figura 6). Ben sette dei 10 Paesi con il più alto tasso di morti violente e 42 delle 50 città più pericolose per omicidi e reati contro la persona si trovano in America latina. Addirittura il 20% dei suoi 625 milioni di abitanti totali nel 2015 ha subito almeno un furto. Nel solo Messico una sorta di guerra civile strisciante, legata soprattutto al controllo del traffico di stupefacenti verso gli Stati Uniti, provoca ogni anno 30mila morti (il doppio delle vittime del conflitto in Afghanistan nel 2015). Ma altri Paesi, come Honduras, El Salvador e Venezuela, registrano tassi di omicidi anche doppi di quelli messicani.
Il secondo male è costituito dal narcotraffico, piaga endemica del continente. La produzione di coca, secondo il World Drug Report 2016 appena pubblicato dall’Onu, è di nuovo in aumento, dopo sette anni consecutivi di riduzione, specialmente nella parte meridionale, mentre dal Centro e dai Caraibi si snodano le vie di smercio che numerosi e spietati “cartelli” di narcotrafficanti controllano in direzione degli Stati Uniti (e ciò spiega il forte coinvolgimento della malavita messicana) e dell’Europa. Il valore della cocaina prodotta, che nei Paesi di origine ammonta a circa 10 miliardi di dollari l’anno, sui mercati di consumo occidentali sale a circa 25 miliardi.
La produzione e il traffico di coca sono alla radice della criminalità dilagante, che alimenta anche la corruzione (Figura 7) molto diffusa e, quindi, la grande insicurezza in cui vive la popolazione. Da qui la richiesta nuovamente crescente di “legge e ordine”, che ha accelerato, nell’ultimo biennio, il ritorno al potere di molti governi di destra. Oggi infatti, in tutta l’America Latina, sono soltanto otto i Paesi governati dalla sinistra, mentre erano ben 15 all’inizio del nuovo millennio. E tra essi i più importanti. Ma a favore della ripresa delle destre gioca anche la necessità economica di riportare ordine nei conti statali, squilibrati dalle politiche di redistribuzione sociale attuate dalla sinistra, oggi non più sostenute da entrate statali adeguate.
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