L'impatto del Covid-19 sulle scelte finanziarie delle famiglie italiane
L’inattesa emergenza coronavirus e la conseguente crisi economica hanno certamente cambiato molte carte sul tavolo a livello globale e individuale. Il periodo di incertezza in cui stiamo vivendo ha infatti avuto sin dall’inizio un considerevole impatto anche sulle scelte in materia economico-finanziaria delle famiglie. Secondo quanto riportato da BVA Doxa, che tra il 20 e il 24 marzo ha condotto un’indagine sugli italiani, circa il 70% dei nostri connazionali è preoccupato per una pesante recessione economica che potrebbe avere effetti diretti sul reddito; il 55% teme di dover utilizzare i soldi messi da parte per fare fronte alle spese fisse durante i mesi di emergenza; il 51% mette in discussione la solidità finanziaria degli istituti di credito e, infine, il 53% dei professionisti teme di non avere supporto adeguato dalla propria banca. In cima ai pensieri del 63% degli italiani vi è la preoccupazione per i propri risparmi.
La centralità rivestita dal risparmio non deve stupirci, specialmente considerando che dal 2017 a oggi è stato registrato un aumento del numero delle famiglie risparmiatrici.
Se ci si concentra infatti su tale percentuale, secondo quanto riportato dai dati de L'Indagine sul Risparmio e sulle scelte finanziarie degli italiani 2019, redatta dal Centro Einaudi in collaborazione con Banca Intesa Sanpaolo (indagine che si basa su interviste della Doxa a famiglie italiane titolari di un conto corrente in banca o in posta), si può vedere come (Figura 1) dopo una fase altalenante di calo globale (anni 2003-2011) e dopo un decremento ancora più significativo (anni 2012-2016), la percentuale negli ultimi tre anni sia stata in costante aumento, evidenziando dunque una significativa ripresa.
Stando alle ultime rilevazioni rese pubbliche da Istat e Banca d’Italia, la ricchezza netta delle famiglie italiane, tra il 2005 e il 2019, è aumentata di quasi un milione e mezzo di euro (Figura 2). Molti tra le rilevazioni statistiche e i rapporti disponibili si interrompono nel 2017. Sarà dunque fondamentale non solo integrare ed aggiornare tali dati ma anche analizzare la situazione pre e post Covid-19, per evidenziare i cambiamenti e le loro dinamiche.
I dati pubblicati finora hanno fatto emergere alcuni aspetti interessanti relativi alla ripartizione della ricchezza dei nuclei familiari italiani, in primis il fatto che la metà di tale ricchezza (ben il 48% nel 2017, con picchi superiori al 50% negli anni tra il 2008 e il 2014) è ancora rappresentata dalla casa di proprietà (Figura 3). A seguire, nelle ultime indagini risalenti al 2017, le altre componenti sono così ripartite: circa il 12% dai depositi, il 9% dalle rendite delle azioni possedute, un altro 9% dalle riserve assicurative, il 6% da immobili residenziali e, infine, un restante 5%, dove spiccano i terreni, che rappresentano in media il 3%. Se da un lato la somma delle cosiddette “attività non finanziarie” rappresenta pressoché i due terzi della ricchezza netta delle famiglie, pari circa a.200 miliardi di euro, di cui 5.246 miliardi di euro dalle abitazioni, dall’altro le cosiddette “attività finanziarie”, cioè biglietti, depositi, titoli, prestiti, azioni, derivati, quote di fondi comuni, riserve assicurative e altri conti attivi, impattano sulle famiglie per una cifra pari a 4.300 miliardi di euro. Più in generale, dunque, sebbene le attività finanziarie delle famiglie siano evidentemente cresciute, la loro incidenza sulla ricchezza netta rimane tuttavia relativamente secondaria Da un lato, all’interno del portafoglio finanziario, si è registrato un aumento del peso percentuale sulle attività̀ dei depositi (che hanno visto un incremento dal 10% al 13%), dall’altro però si sono ridotti sia il peso delle azioni e delle altre partecipazioni (scese dal 12% al 10%) e, in misura maggiore, dei titoli (diminuiti percentualmente dall’8% al 3%). È inoltre importante sottolineare come negli ultimi dieci anni le cosiddette “passività finanziarie”, ovvero titoli, biglietti, depositi, azioni, derivati quote di fondi comuni e riserve assicurative, siano cresciute al triplo della velocità della ricchezza netta: l’incremento delle passività tra il 2008 e il 2017 è stato infatti pari al 9,5% (da 845 milioni di euro a 926 milioni di euro) mentre quello della ricchezza netta, nello stesso arco di tempo, è stato solamente del 3% (da 9.441 miliardi di euro a 9.742 miliardi di euro).
Un ulteriore aspetto interessante messo in luce dai dati raccolti attraverso gli studi sopracitati è che l’Italia è il paese europeo con il gap maggiore fra patrimonio e reddito delle famiglie, fattore che è da interpretarsi come un indicatore di disuguaglianza sociale, in quanto la ricchezza si produce e si accumula più velocemente a partire da un solido patrimonio rispetto al solo reddito da lavoro. Il valore elevato di tale rapporto, amplificato dal ristagno ventennale dei redditi dei nuclei familiari italiani, è ancora più allarmante se messo a confronto con le cifre degli altri paesi europei (Figura 4): alla fine del 2017, la ricchezza netta dei nuclei famigliari italiani nel loro complesso era di 8,4 volte superiore rispetto al loro reddito disponibile, mentre in Francia e Regno Unito invece tale valore era inferiore alle 8 volte e, in Germania, addirittura di poco superiore alle 6 volte.
È tuttavia doveroso sottolineare come, nonostante questi preoccupanti dati, vi sia anche una “buona notizia”: seppur molto lentamente, in Italia si stava riducendo – secono i dati 2017 - il gap tra famiglie più ricche e famiglie più povere (Figura 5). Tale riduzione potrebbe essere stata annullata dal covid, anche se dalla più recente indagine Eu-Silc dell’Istat è emerso come negli ultimi anni vi sia stata una lieve ma comunque importante diminuzione della percentuale di famiglie italiane a rischio di povertà ed esclusione sociale e quello delle famiglie in grave deprivazione materiale (dal 30% del 2016 al 28,9% registrato nel 2017). Nonostante questi risultati facciano ben sperare, siamo ancora ben lontani da quello che era l’obiettivo iniziale prefissato: nel 2017 la popolazione esposta a rischio di povertà̀ o esclusione sociale era superiore di oltre 4 milioni al target previsto. Nell’ambito di Europa 2020, rispetto al valore registrato nel 2008, si auspicava infatti di aiutare ad uscire da questa condizione ben 2,2 milioni di persone. Più in generale, nel 2016 si è anche registrato un aumento del reddito mediano, cresciuto specialmente nel Nord-Est (con un picco del 3,9%), a fronte di un’aliquota media rimasta stabile rispetto al 19% registrato nel 2015. I dati registrati sono positivi anche per quanto riguarda la situazione nel Sud-Italia: tra il 2016 e il 2017 la popolazione a rischio di povertà e/o esclusione sociale è scesa dal 46% al 44% e, contemporaneamente, la popolazione a rischio di grave deprivazione materiale, sempre tra il 2016 e il 2017, è diminuita dal 21% al 16%.
Nel complesso, il cuneo fiscale e contributivo in questi anni si è progressivamente abbassato, fino a stabilizzarsi ad un valore pari al 45,7% del costo del lavoro (Figura 6).
Purtroppo non si è invece registrato alcun progresso nel gap tra reddito da lavoro maschile e femminile anzi, al contrario, il divario salariale legato al genere ha registrato un aumento negli ultimi anni. Tra il 2016 e il 2017 il reddito lordo annuale maschile è aumentato, crescendo dai da 26.908 ai 27.486 euro lordi annui mentre quello femminile è diminuito, passando dai 20.099 euro lordi ai 20.093. Sebbene siano mediamente più istruite, il 26,4% delle lavoratrici subordinate possiede infatti una laurea contro il 16,9% degli uomini, le donne sono retribuite in media il 23% in meno rispetto ai loro colleghi maschi (Figura 7). Come sottolineato in altri articoli, il differenziale di genere cresce con il livello d’istruzione: le donne ricevono in media il 14,4% in meno tra i lavoratori meno istruiti e addirittura il 38,5% in meno tra quelli più̀ istruiti. Discorso analogo per quanto riguarda il divario di genere in ambito pensionistico, risultato da imputare anche al mancato lavoro femminile negli scorsi decenni: sebbene vi siano infatti percentualmente più donne pensionate vedove sul totale dei pensionati, nella maggioranza dei casi queste percepiscono unicamente la pensione di reversibilità del marito, con valori medi netti di 13 mila euro annui, contro una media di 18 mila euro netti annui percepiti dagli uomini. Se si considera poi che nella situazione di emergenza Covid-19 attuale sono proprio le donne quelle ad essere più colpite, il divario di genere in termini di ritorno economico non può che essere aumentato.
Se da un lato, nel complesso, le famiglie a rischio di povertà sono passate dal rappresentare il 20,6% del totale al 20,3% del 2017, e quelle a rischio di grave deprivazione materiale dal 12% al 10%; dall’altro è molto difficile riuscire a stimare l’impatto su tali dati del lavoro femminile sotto-retribuito. Per quanto riguarda invece i dati relativi ai monogenitori, il 13% di loro (rappresentato perlopiù da donne) è ancora a rischio di grave deprivazione materiale.
Sebbene vi siano stati dei miglioramenti in questi anni, la situazione attuale di emergenza che stiamo vivendo rischia non solo di annullare i progressi fatti in termini di aumento dei risparmi ma anche, a causa della crisi, di trascinare più famiglie in condizioni di indigenza. Per questo motivo risulta dunque fondamentale l’introduzione di interventi strutturali volti, ad esempio, a contrastare la povertà e il divario salariale di genere.
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