Analizziamo i risultati dell'edizione 2015 dell'Economic Freedom of the World Report, realizzato dal centro di ricerca canadese Fraser Institute
Il 14 settembre sono stati presentati i risultati dell'edizione 2015 dell'Economic Freedom of the World Report, realizzato dal centro di ricerca canadese Fraser Institute. Il rapporto analizza l'evoluzione della libertà economica, intesa come possibilità di perseguire le scelte personali, di scambiare liberamente beni e servizi e di entrare e competere sui mercati, in oltre 150 paesi, fornendo interessanti spunti di riflessione per comprendere la qualità del background istituzionale nelle diverse aree geografiche a livello mondiale. La libertà economica è misurata attraverso un indice composto da una serie di indicatori che coprono le diverse aree ritenute critiche per garantire un adeguato livello di libertà economica: la dimensione del governo, la struttura del sistema legale e la tutela dei diritti di proprietà, la politica monetaria, la libertà del commercio internazionale e la regolamentazione dei mercati del lavoro e del credito (Figura 1).
L'edizione 2015 dell'indice contiene i dati aggiornati fino al 2013, ultimo anno per il quale sono disponibili i dati macro-economici e istituzionali con i quali vengono costruiti gli indicatori.
I risultati riflettono alcuni importanti effetti della recente crisi economica (Figura 2). Infatti, mentre nel lungo periodo (dagli anni ottanta) si è osservato un incremento del livello di libertà economica a livello globale, nel corso degli ultimi anni si sono osservate alcune inversioni di tendenza. I paesi appartenenti all'OECD, ad esempio, hanno perso in media un quarto di punto rispetto all'anno 2000. Gli Stati Uniti, costantemente ai primi posti a livello mondiale fino a metà del decennio scorso, hanno perso terreno e si collocano appena in sedicesima posizione (Figura 3). Il Regno Unito rimane nella top 10 ma con voti inferiori rispetto a quelli ottenuti negli anni prima della crisi e perdendo alcune posizioni in termini relativi, per un lieve peggioramento in diverse aree di analisi tra cui la dimensione del governo e la qualità della regolamentazione.
Per quanto riguarda l'Europa Continentale la Germania, pur perdendo alcune posizioni (era diciannovesima nel 2006) mantiene una buona collocazione in classifica e, con un 7,5, si pone al ventinovesimo posto. Diverso il percorso dell'altro "big" europeo, la Francia, che nello stesso periodo (2006-2013) passa dalla quarantasettesima alla settantesima posizione, arretrando di ben 14 posizioni soltanto nell'ultimo anno di analisi, a causa di un peggioramento in tutti i campi fatta eccezione per la politica monetaria (ormai presidiata dalla BCE).
I paesi europei maggiormente colpiti dalla crisi ne hanno subito in parte le conseguenze anche dal punto di vista della libertà economica. La Spagna, che si era guadagnata un discreto posizionamento, scivola al cinquantesimo posto nel 2013, con un marcato peggioramento nel campo della dimensione del governo, dove il paese subisce l'impatto di medio-lungo termine delle politiche di sostegno dell'economia e del sistema bancario nazionale, che hanno determinato un peggioramento delle finanze pubbliche. La Grecia, tradizionalmente agli ultimi posti a livello europeo, scivola all'ottantacinquesima posizione mentre la piccola Cipro passa dalla trentunesima posizione registrata nel 2012, anno in cui è stata colpita dalla crisi del sistema bancario nazionale, alla settantacinquesima posizione nell'anno immediatamente successivo. Fa storia a sé l'Irlanda, uscita dalla top 10 solo per quattro anni (dal 2008 al 2011) e protagonista nel 2013 di ritorno ad un ragguardevole ottavo posto.
Più in generale, i dati e le analisi effettuate dagli autori del rapporto evidenziano alcune tendenze interessanti. I paesi industrializzati e maggiormente ricchi tendono ad avere voti migliori nelle aree relative alla tutela dei diritti di proprietà, della politica monetaria e del commercio internazionale, pur avendo performance peggiori dal lato dell'intervento dei governi nell'economia e della regolamentazione dei mercati. Tra i paesi meno avanzati, viceversa, se ne osservano alcuni con voti molto elevati in tema di dimensione del governo (grazie a regimi fiscali favorevoli) ma con un voto complessivo basso, a conferma del fatto che non basta "poco stato" per garantire una buona libertà economica, ma che occorrono anche "buone istituzioni".
Continua a essere evidente l'emergere di alcuni paesi arabi. Con un voto complessivo pari a 8,15, e con buone performance in tutte le aree di analisi, gli Emirati Arabi Uniti si classificano quinti (erano trentanovesimi nel 2000). Scendendo un po' più in giù troviamo la Giordania (settima), il Qatar (tredicesimo), il Bahrain (ventiquattresimo). È la conferma che in questi paesi, dove pur le libertà politiche e sociali rimangono limitate, si stanno instaurando delle accettabili istituzioni economiche in grado di creare un ambiente "business friendly".
Al contrario, prosegue il declino di alcuni paesi sud-americani, protagonisti di riforme contro il libero mercato. Il Venezuela, con un voto pari a 3,2, è ultimo in classifica. Era quattordicesimo nel 1980, prima di iniziare una discesa costante ma maggiormente accentuata a partire dalla prima metà degli anni Novanta e con un peggioramento di oltre mezzo punto solo nell'ultimo anno di analisi. L'Argentina è sestultima con un voto pari a 5,2. In questo caso, dopo una "risalita" che le aveva permesso di arrivare alla 35° posizione nel 2000, il paese è costantemente peggiorato nel corso degli ultimi anni, e la parabola discendente è stata evidente anche nell'ultimo anno di analisi (sette posizioni perse in termini relativi).
Dal lato italiano, continua ad osservarsi un sia pur lieve declino dei livelli di libertà economica (Figura 4). Dopo un miglioramento del giudizio complessivo, in termini assoluti, registrato negli anni Novanta e ascrivibile in gran parte alle riforme intraprese per far fronte alla situazione di crisi dei primi anni del decennio, il nostro paese ha oscillato, tra piccoli miglioramenti e peggioramenti, nei primi anni dello scorso decennio. Nel 2013 l'Italia si colloca sessantottesima, con un voto complessivo pari a 7,13, di fatto al pari della Francia ma quasi quaranta posizioni dietro alla Germania, e sestultima a livello europeo. Il giudizio è ottimo (9,8) nell'area della politica monetaria, buono nelle aree della libertà del commercio internazionale (7,5) e della regolamentazione (7,1) ma non sufficiente se si guarda alla dimensione del governo (5,4) e della tutela dei diritti di proprietà (5,7).
Per quanto riguarda la dimensione del governo, il voto complessivo è aumentato passando da un 3 nel 1985 a una quasi sufficienza (5,9) nel 2006, salvo poi peggiorare nuovamente negli anni della crisi fino al risultato del 2013. Nell'ambito della qualità del sistema giudiziario e della tutela dei diritti di proprietà, nello scorso decennio si è registrato un peggioramento che ha portato il rating da 7,7 (nel 2000) all'attuale 5,7.
Come dimostrato da numerose evidenze empiriche, per quanto non sia facile stabilire un nesso di causalità diretta tra libertà economica e altri elementi socio-economici che contraddistinguono il grado di sviluppo di un paese, come reddito pro-capite e povertà relativa e assoluta, esiste una forte correlazione tra l'indicatore del Fraser Institute e gli altri indicatori socio-economici. È quindi importante monitorarne l'andamento del tempo e agire per invertire eventuali tendenze al peggioramento, anche se possibilmente dovute alla fase congiunturale di questi ultimi anni.
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