Lo sfruttamento eccessivo delle risorse ittiche e l'impatto ambientale dell'allevamento intensivo, oltre ai rischi legati al cambiamento climatico, pongono diversi interrogativi sul futuro

La disponibilità di molte risorse naturali è spesso data per scontata. Si tratta di risorse che sono a disposizione dell’umanità da sempre, e l’abitudine a utilizzarle può far perdere di vista il fatto che siano limitate e, di conseguenza, che prima o poi possano esaurirsi.

Il rischio di considerare con leggerezza questa eventualità è tanto più presente quanto meno sono visibili gli effetti dell’intervento dell’uomo sullo stock delle risorse in considerazione. Nel caso delle risorse ittiche è ad esempio difficile immaginare che cosa accade sotto la superficie delle acque. Eppure sarà capitato a molti di cogliere qualche segnale di allarme anche solo realizzando che il numero di pesci che si avvistano facendo il bagno d’estate diminuisce di anno in anno, o leggendo sui giornali che una nuova invasione di meduse minaccia la tranquillità delle vacanze sui litorali natii.

Scendendo più in profondità, i primi motivi di preoccupazione arrivano dai dati sull’utilizzo delle risorse ittiche.
La domanda di pesce è aumentata in tutto il mondo, e l’industria che procaccia questo alimento si è sviluppata enormemente negli ultimi decenni. Dagli anni Sessanta a oggi la produzione di pesce da cattura è quasi triplicata, quella di pesce allevato è passata da 1,6 milioni di tonnellate a 66.6 milioni di tonnellate. Sono quantitativi enormi. Che dovrebbero portare a domandarci non solo quanto è possibile chiedere ai nostri mari, ma anche che cosa comporti la costruzione di allevamenti che producono così grandi quantitativi di pesce.

In molti mari si pesca più pesce di quanto la natura riesca a riprodurne. Uno sfruttamento che ha risvolti negativi anche per l’industria ittica, che negli ultimi decenni ha visto rallentare, e a volte diminuire, la quantità di pesce catturato in mare. La FAO stima che la percentuale di pesce pescato a livelli non sostenibili sia passata dal 10% al 29% del totale negli ultimi quarant’anni, come mostra l’andamento dell’area di colore azzurro in Figura 1. Le restanti risorse ittiche marine non sono sottoposte a uno sfruttamento eccessivo, nel senso che sono in grado di riprodursi o che sono sotto-utilizzate. Osservando l’area di colore blu scuro in Figura 1, si può notare che la componente di risorse ittiche pescate a livelli sostenibili è diminuita soprattutto per quella porzione di pesce già sotto-utilizzata, vale a dire quella che permetterebbe incrementi di produttività per l’industria ittica. Lo sfruttamento dei mari e di quello che contengono sta quindi proseguendo lungo una china pericolosa; minaccia di intaccare in modo irreparabile il patrimonio ittico del pianeta. Rispetto all’entità potenziale di questi danni passano in secondo piano i danni ambientali legati all’inquinamento generato da flotte di pescherecci motorizzati che utilizzano carburanti altamente inquinanti.

Anche l’acquacoltura ha un impatto considerevole sull’ambiente. Gli allevamenti di pesci, molluschi, e crostacei possono, infatti, danneggiare gli ecosistemi con i quali entrano in contatto attraverso vari canali. Le acque che escono dagli allevamenti contengono scarti, deiezioni, e sostanze chimiche che vengono dispersi nell’ambiente, danneggiandolo. Gli esemplari che sfuggono agli allevamenti si inseriscono in habitat naturali importando malattie o sostituendosi a specie autoctone che spesso soccombono di fronte ai nuovi arrivati. L’acquacoltura, inoltre, impiega spesso mangimi come farina di pesce e olio di pesce, prodotti utilizzando pesce catturato in natura, aumentandone quindi la domanda e lo sfruttamento (preferiti a mangimi di minore impatto ambientale perché contengono proteine animali che permettono di sfamare e far crescere più rapidamente le specie allevate più richieste, come gamberetti e salmoni).

Tra i danni riconducibili all’acquacoltura, un discorso a parte merita la distruzione di migliaia di ettari di mangrovie. Tema a noi europei forse poco noto o poco sentito, data l’assenza di questo tipo di foresta sulle coste del Vecchio Continente. Le foreste a mangrovia sono, infatti, formazioni vegetali che crescono nelle aree costiere tropicali (Figura 2). Forniscono un habitat per molte specie di animali, molluschi, crostacei e pesci, e riducono l’impatto di eventi naturali di forza distruttiva quali cicloni e maremoti. La maggior parte di queste foreste si trova in Asia, continente che nel 2005 ospitava quasi il 40 % della popolazione mondiale di mangrovie, seguita dall’Africa (21%) , e dall’America Settentrionale e Centrale (15%).
La fisionomia di molte coste tropicali e gli equilibri di interi ecosistemi hanno subito le conseguenze del fiorire dell’industria dell’acquacoltura, in particolare di quella del gamberetto. Per lasciare posto agli allevamenti ittici nel mondo si sono persi ben 3500 chilometri quadrati di mangrovie tra il 1980 e il 2005, pari a un quinto del totale (Figura 3). La perdita maggiore si è registrata in Asia (che ha segnato un meno 25%), continente nel quale sono scoppiate vere e proprie guerre tra allevatori di gamberi e comunità locali (ne è un caso emblematico l’esperienza del Bangladesh), e dove per arginare gli effetti di quella che alcuni iniziano a chiamare “corsa all’oro rosa”(vale a dire ai gamberi di allevamento), è intervenuta anche l’UNESCO, che nel 2007 ha dichiarato Sundarbans, che con i sui 1400 chilometri quadrati di estensione tra Bangladesh e India è la più grande foresta a mangrovie al mondo, patrimonio dell’umanità.

Oltre agli effetti diretti dell’azione dell’uomo, elementi importanti per la salute degli ecosistemi marini e di acqua dolce sono il clima e la progressiva acidificazione degli oceani (fenomeno legato all’aumento dell’anidride carbonica nell’atmosfera). Il cambiamento climatico, in particolare, alterando la temperatura delle acque, modificherà le correnti, gli ecosistemi marini e continentali, e di conseguenza la distribuzione delle specie ittiche. Per capire la portata di questo fenomeno, basti pensare agli avvistamenti di pesci anomali nelle acque del Mediterraneo, dove è sempre più frequente incontrare il barracuda del Mar Rosso (ben diverso dal barracuda mediterraneo o dal luccio di mare) oltre a specie di tonnetti, triglie, ricciole, cernie e altri (tra cui il pesce palla) che arrivano dai mari tropicali. Il processo di “tropicalizzazione” del Mar Mediterraneo, con l’ingresso di specie spesso più aggressive e dalla maggiore capacità adattiva di quelle locali, pone seri interrogativi sul futuro delle acque (e della biodiversità) di quello che i romani chiamavano mare nostrum.

L’innalzamento delle temperature delle acque è un fenomeno che riguarda tutti i mari del globo terrestre. La Figura 4 mostra la temperatura superficiale dei mari che è stata registrata in media tra il 1956 e il 2005, evidenziando in rosso le aree più calde e in bianco quelle più fredde. Secondo le stime dell’agenzia federale statunitense NOAA (acronimo di “National Oceanic and Atmospheric Administration”) la temperatura superficiale dei mari cambierà significativamente nel corso di questo secolo. Per fare un esempio, tra il 2006 e il 2055 si prevedono aumenti di più di un grado negli oceani settentrionali, aumenti che nella seconda metà del secolo (2050-2099) saliranno a 3 gradi rispetto alle temperature registrate tra il 1956 e il 2005 (Figura 5).

Le conseguenze che l’innalzamento della temperatura delle acque avrà sulla produzione mondiale di pesce sono difficili da prevedere. La pesca da cattura aumenterà nei mari artici e antartici, che al momento non rappresentano aree particolarmente produttive – nei mari all’estremo nord e sud del mondo nel 2012 sono state catturate 179 mila tonnellate di pesce, pari ad appena 2 millesimi della produzione mondiale. Al tempo stesso si prevede una diminuzione della produttività nelle aree che si incontrano spostandosi verso l’Equatore, specie i mari tropicali e subtropicali, che attualmente rappresentano aree altamente produttive. Si avrà quindi una redistribuzione geografica delle risorse ittiche, sia a livello marittimo sia a livello continentale, che favorirà la produzione in paesi quali la Russia, la Norvegia, l’Alaska, e sfavorirà paesi quali la Cina, gli Stati Uniti d’America, l’Indonesia. Con ovvie ricadute economiche sui paesi interessati.

Se ai rischi legati al cambiamento climatico sommiamo lo sfruttamento eccessivo dovuto alla pesca e l’impatto ambientale dell’allevamento intensivo, gli interrogativi sul futuro delle risorse ittiche del pianeta diventano molti, e rendono urgenti interventi volti a regolamentare e a incentivare pratiche di produzione sostenibili che, ad esempio, utilizzino gli scarti degli allevamenti per concimare campi o nutrire altri allevamenti di alghe, che a loro volta possono nutrire i pesci. Argomenti che saranno affrontati a Expo 2015.