Dico il peccato, non il peccatore. Qualche giorno fa ho ricevuto al giornale una gentile richiesta scritta per essere intervistato su questo tema: «Il tempo della stabilizzazione dell'attenzione alla transizione sostenibile nelle imprese». Ho intuito, forse; giusto perché qui ci occupiamo di economia. Ma non ho capito granché. E ho chiesto delucidazioni, vedremo se arriveranno. Cosicché mi è tornato alla mente un cartello stradale che qualche anno orsono campeggiava a Roma dalle parti di San Pietro: «Vietato l'accesso ai mezzi ippotrainati». Che sarebbero poi le carrozzelle.

Queste sono le distorsioni del «gerghese». Che presenta varie forme patologiche, ovviamente. Le più note sono il sindacalese, l'ecclesialese, il burocratese. Ma hanno mille varianti, come i virus. Mi brucia lo stomaco quando s'immolano contenuti importanti sull'ara del linguaggio complicato. Perché esistono temi di assoluta rilevanza che hanno invece bisogno di essere comunicati con enunciati semplici e chiari, in grado di convincere. In caso contrario, ci troviamo con molta probabilità nelle istruzioni per compilare la Dichiarazione dei redditi oppure nel libretto di qualche elettrodomestico tradotto dal cinese.

 

Ora, parliamo di sostenibilità e di economia d'impatto nella Cosa pubblica, di cui riferiamo nei servizi di oggi su Mondo Economico. Molto interessante quanto scrivono Paolo Biancone e Federico Chmet a proposito del lavoro che sta conducendo sul punto l'Università di Torino con diverse amministrazioni civiche. Io non penso che si tratti di fuffa o, peggio, di truffa, come sostengono alcuni. Al contrario, sono temi fondamentali per parlare di futuro con uno sguardo civico, ovvero in grado di generare corresponsabilità a diversi livelli: è sale della democrazia rendere conto del perché si compiono scelte, si programmano investimenti, si cotruiscono progetti. E tutto questto dovrebbe essere conosciuto - e praticato - in semplicità e concretezza, smascherando senza indulgenze ogni possibile greenwashing.

  

Non intendo banalizzare o generalizzare, sia chiaro. Ma penso che sia quanto mai opportuna una riflessione sul linguaggio. Chi parla o scrive molto complicato, in genere, o non la conta giusta o capisce poco dell'argomento. Oppure è un pavone autorefrenziale. Comunque vada, non comunica. Per cui andrebbe rivolto un appello a (noi) giornalisti, ai docenti universitari, ai decisori pubblici e privati: rendiamo sostenibile anche il nostro modo di parlare perché sia divulgativo, accessibile, convincente. Dovremmo prendere esempio dalle due sindache di Settimo Torinese e di Castel Maggiore che hanno puntato a fare chiarezza sul bilancio per renderlo comprensibile a tutti,  prima regola per trasparenza e partecipazione. Utopia? No, si può fare.

Diversamente, il linguaggio diventa un boomerang che si aggiunge a quelli che già abitualmente ci arrivano sulla testa, specie in Italia. 

Diversamente, non si può che dare ragione al sempre corrosivo Karl Kraus: «Se non avete niente da dire, ditelo almeno in maniera comprensibile».