L'uscita dalle obbligazioni che rendono meno del tasso di inflazione (corrente e atteso) non ha ancora prodotto una domanda di azioni abbastanza stabile da impedire delle cadute improvvise di queste ultime. La vicenda del Giappone è diversa, perciò la nota cerca una spiegazione del comportamento delle attività finanziarie nel solo Occidente.
Le azioni non sono a buon mercato, ma neppure troppo care. I prezzi delle azioni in eventuale ascesa hanno un supporto negli andamenti delle imprese, ma questo supporto non è dovuto a una forte espansione degli utili. Il supporto è legato ad un livello degli utili abbastanza elevato, ma a crescita modesta. Ci fosse perciò una forte domanda di azioni finanziata con la vendita delle obbligazioni, non entreremmo subito in una “bolla”, perché i prezzi per un po' sarebbero ragionevoli. Esiste dunque un incentivo per comprare le azioni.
Questa domanda di azioni non si materializza in misura marcata, perché non c'è ancora la convinzione diffusa che la Banca Centrale degli Stati Uniti smetterà di comprare (o ridurrà molto gli acquisti di) obbligazioni, che è quel che sta facendo per un controvalore di ben 85 miliardi di dollari al mese. I prezzi delle obbligazioni godono quindi ancora del supporto della domanda della Banca Centrale - il Quantitative Easing.
Le obbligazioni hanno un rendimento nullo in termini reali (ossia al netto dell'inflazione), ma non si palesa – fintanto che la Banca Centrale interviene - una forte perdita in conto capitale, quella che si avrebbe con i rendimenti che vanno verso il cinque per cento (la media storica). Non palesandosi questo rischio, le obbligazioni sono tenute nei portafogli. Una parte è venduta (generando un modesto rialzo dei rendimenti in termini assoluti), ma il controvalore di queste vendite non è ancora abbastanza elevato da spingere le borse stabilmente all'insù.
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