Ecco la quarta puntata del "dialogo tra un Investitore finanziario (I) e un economista (E) sui mercati finanziari americani" (1).

I: Siamo al dunque?

E: Cosa intendi?

I: Non aspettavi forse che le Borse flettessero?

E: Direi che la flessione di febbraio non è la principale novità. Fino a che una chiusura mensile non avviene sotto la media a 200 giorni, la considero una correzione: la novità è il ripristino della volatilità. Che è sana.

I: Scusa, ma la volatilità non aumenta l’incertezza?

E: La volatilità è segno che in Borsa si scontrano i giudizi critici di investitori al rialzo e al ribasso e che è finito il periodo della compiacenza, nel quale tutti hanno creduto alla storia che le quotazioni non sarebbero mai scese, difese dalla liquidità dei banchieri centrali. La Borsa è il tribunale del capitalismo, non abbiamo un sistema migliore per scegliere come rendere ottimale, giorno per giorno, l’allocazione degli investimenti. Negli ultimi anni la Borsa ha funzionato male, perché è stata acquistata passivamente per mancanza di alternativa, perché i rendimenti delle obbligazioni erano troppo bassi, addirittura negativi, proprio per via della politica monetaria. E allora è venuta meno una delle funzioni essenziali delle Borsa: quella di scegliere su quali imprese concentrare le risorse.

I: Quindi non approvi che i banchieri centrali abbiano difeso i mercati?

E: I banchieri centrali hanno evitato il peggio all’economia generale, hanno reso sostenibili debiti che avrebbero prodotto fallimenti a catena, forse anche di Stati sovrani, ma facendo così hanno offeso e non difeso i mercati. I mercati finanziari esprimono prezzi il cui reciproco sono rendimenti, e questi guidano le scelte non solo degli investitori finanziari, ma anche di quelli reali. Rendimenti non volatili riducono l’incertezza di chi investe monetariamente, ma non danno alcun segnale utile a chi investe realmente. E, infatti, buona parte della crescita anemica del Pil, in Europa come negli Usa, è dovuta alla bassa propensione ad investire.

I: In ogni caso siamo alla fine della politica monetaria espansiva

E: E’ stata una droga necessaria, ma pur sempre una droga.

I: Chi sono i drogati?

E: I prezzi degli asset. Le banche centrali hanno cercato invano di far crescere i prezzi dei beni di consumo e i salari unitari, ma non ci sono riusciti. La liquidità è rimasta nel circuito finanziario e non si è scaricata nel circuito reale. Sono cresciuti i prezzi di azioni, obbligazioni, beni da collezione e case. A ben vedere l’inflazione si è prodotta, ma nel posto sbagliato, per questo prima o poi bisogna chiudere i rubinetti.

I: Alcuni sostengono invece che fino a che i prezzi non torneranno a crescere nei beni di consumo, i tassi dovrebbero restare bassi.

E: E’ una posizione che dovrebbe essere riformata ed è basata sul fatto che gli indici generali dei prezzi sono sfiorati dai prezzi degli asset, e quindi non raggiungono il 2 per cento di aumento annuale in Europa. Negli Usa lo stesso, al netto di cibo e carburanti. Ma il potere di acquisto dei redditi si è comunque ridotto se i prezzi delle case, per esempio, sono aumentati. In termini di case, l’americano medio è più povero e il punto è che sul mercato del lavoro non riesce a recuperare, salvo che non appartenga a una categoria particolare, come un manager della finanza, un chirurgo o un ingegnere del software. Di inflazione, a ben vedere, se ne è prodotta fin troppa.

I: Ma muovere i tassi di interesse provocherà effetti. Quando i tassi saranno saliti non c’è il rischio che la domanda aggregata si riduca?

E: C’è la certezza che le componenti della domanda legate al finanziamento creditizio si ridurranno. Pensiamo alle case, che negli Stati Uniti si acquistano con mutui a trent’anni. Se ne compreranno di meno. Sarà un incentivo a investire di più nelle attività più redditizie e questo renderà il sistema più efficiente.

I: Ragionamento da scuola austriaca, ma non pensi che l’innovazione sia indipendente dal tasso di interesse?

E: Nella fase di creazione sì, ma nella fase di diffusione, che è quella più importante per l’economia, è l’opposto. Quando il costo del capitale cresce, si affrontano le sfide più complesse, che di solito sono anche le più produttive. Cambia la composizione degli investimenti: ce ne saranno più ad alto margine, quanto meno in termini di aspettative.

I: E i governi?

E: I tassi bassi non sono un freno, semmai sono un incentivo ai debiti pubblici eccessivi, quindi è meglio tornare appena possibile verso la norma.

I: Torniamo ai mercati finanziari, la festa è finita per le obbligazioni?

E: Direi che è finita per gli emittenti. I rendimenti torneranno a rispecchiare il costo opportunità degli investimenti e questo li selezionerà.

I: Alcuni non riusciranno più ad emettere

E: Già, e questo vuol dire che il credito bancario tornerà appetibile. Non è un male né per l’economia generale, né per l’industria bancaria, a ben vedere.

I: Le azioni scenderanno?

E: Le azioni sono care in termini di rapporto tra prezzo e utili, anche se non in tutti i mercati. Con un rendimento alternativo delle obbligazioni più alto sarebbe sensato aspettarsi un rapporto tra prezzo e utili inferiore a quello corrente. Se si regredisse verso la media, diremmo che la borsa (americana) è sopravvalutata di un buon 25 per cento. Naturalmente, se gli utili aumentassero la sopravvalutazione potrebbe riassorbirsi.

I: La politica fiscale di Trump sostiene gli utili, però.

E: E’ così. L’effetto ribassista della crescita dei tassi dovrebbe essere smorzato da quello della crescita degli utili netti, quanto meno in una prima fase

I: Non lo consideri un effetto permanente?

E: Le minori tasse ancora una volta non si scaricheranno a terra, ossia in investimenti e salari, se non in parte, perché circa metà finanzierà buyback, dividendi, riduzione di debiti eccesivi e bonus.

I: C’è anche l’effetto del maggiore Pil trattenuto dalle politiche doganali

E: E’ sempre stato temporaneo nella storia dell’economia. I dazi producono inflazione, inefficienza e nel giro di due o tre anni ottengono un effetto opposto di quello che avrebbero dovuto determinare. Non sono una politica economica, sono al massino una politica di comunicazione interna e una politica di pressione estera.

I: Però il Pil americano sta accelerando?

E: Attenzione a scambiare la narrazione con i numeri. L’ultimo trimestre del 2017 (quello nel quale le fabbriche sono state sommerse dagli ordini per le riparazioni dei danni degli uragani estivi) è stato appena rivisto al ribasso, al 2,5 per cento mentre è corretto dire che l’economia è al pieno impiego. Quindi, a tutto vapore, la locomotiva non sfonda la barriera del 3 per cento, ossia ha prestazioni di un punto percentuale in meno rispetto ai decenni precedenti la grande recessione del 2008.

I: La politica fiscale di Trump ha lo scopo di premere sull’acceleratore.

E: Mettere soldi nelle tasche dei ceti più abbienti e delle società, prendendoli a prestito dal mercato non è detto che produca una bolla di spesa, mentre è sicuro che destabilizzerà ancora di più il rapporto debito/pil, superiore al 100 per cento. Il debito pubblico non è ricchezza reale, è il valore attuale delle tasse future. E, comunque, questo aumenta la credibilità che i tassi di interesse dovranno salire.

I: Ragioni sempre dal lato dell’offerta.

E: Proviamo a ragionare dal lato della domanda allora. Buona parte della spesa militare aggiuntiva finisce all’estero, dove ci sono gli impegni della forza. La spesa per infrastrutture promessa è meno di quella che serve per manutenerle. Solo metà dei risparmi fiscali delle società quotate finirà in salari e investimenti e quanto all’impatto delle minore imposte sui ceti medi, stiamo parlando di forse 2000 dollari all’anno per famiglia: serviranno a sgonfiare un po’ il plafond a tappo delle carte di credito. Sai bene che il deleveraging negli Usa ha interessato solo il settore finanziario (perché la banca centrale ha monetizzato alcuni debiti in portafoglio), mentre i debiti sono cresciuti dopo la recessione nei bilanci di imprese, famiglie e dello Stato.

I: Cosa servirebbe per aumentare la domanda?

E: Alzare i salari, mi sembra chiaro, ma questo non avviene perché il mercato del lavoro si è dualizzato. Sono aumentati i posti di lavoro ben pagati (guidati dai redditi delle società di successo e delle nuove tecnologie, e della finanza). Sono aumentati i posti di lavoro mal pagati offerti per mansioni semplici (sotto la pressione della enorme concorrenza mondiale di chi può coprire quelle mansioni) ma sono diminuiti i posti di lavoro del ceto medio, in passato piuttosto ben pagati. Adesso con quei redditi non si compra più una villetta, ma un appartamento, e non si mandano più i figli all’università, perché le rette sono raddoppiate.

I: E’ l’effetto della transizione tecnologica, mi pare di capire

E: Sì, può darsi che a transizione compiuta avremo un sistema più produttivo, ma la distribuzione del reddito attraverso il lavoro dovrà essere innovata. O si paga meglio il lavoro riducendo pure gli orari o avremo più poveri a carico del bilancio pubblico. Non vedo politiche all’orizzonte che facilitino la transizione dall’economia del ventesimo secolo al ventunesimo, digitale. Dazi e sgravi fiscali in deficit non aiutano, forse danneggiano.

I: Torniamo alla Borsa, quando lo S&P a 3000?

E: Se vuoi che ti risponda che lo vedremo mai, c’è anche questa possibilità. Chi pensa al moto perpetuo dovrebbe ricordare che gli investitori giapponesi non hanno ancora recuperato il loro investimento nel Nikkei degli anni ottanta.

I: Ma la Borsa americana è diversa

E: Sì, in positivo, il rendimento del capitale è sempre stato superiore al tasso di crescita del Pil negli ultimi trecento anni, e questo giustifica un aumento dei prezzi dei titoli, ossia della capitalizzazione complessiva, sul Pil medesimo. Il famoso indicatore di Buffet. Per un investitore secolare americano la Borsa americana ha sempre pagato i maggiori rendimenti, ceteris paribus

I: Cosa vuol dire “ceteris paribus”

E: A parità di rendimenti obbligazionari, e a parità degli altri elementi che si valutano quando si considera l’acquisto di azioni

I: Sarebbe?

E: Il premio di rischio, che include il premio per coprirsi dalla possibilità di perdite previste e impreviste. Chi investe è una specie di autoassicuratore del suo capitale.

I: Ma il rischio non si controlla con la diversificazione?

E: Non è così. Dal 2000 abbiamo vissuto due crisi che la diversificazione non avrebbe permesso di controllare bene. Questo accade perché la globalizzazione ha aumentato l’esposizione agli eventi potenzialmente avversi e la crescita della leva finanziaria in caso di crisi aumenta le oscillazioni in campo negativo.

I: Questo come impatta sugli investitori?

E: Aumenta il premio di rischio che razionalmente bisogna chiedere alle azioni. Sottraendo dal rendimento finale delle azioni il premio di rischio, deve rimanere un margine positivo per l’azionista sull’obbligazionista. E questo è andato sempre più riducendosi. Ho fatto i calcoli e te li mostro qui sotto. La linea blu è quella dei rendimenti azionari (Usa) al netto dei premi di rischio (calcolati con una mia formula, che considera anche il premio per coprirsi dalle variazioni inattese, con un approccio autoassicurativo, diverso da quello usato dagli investitori, che è scorretto). La linea rossa è quella del rendimento delle obbligazioni del tesoro Usa decennali. Ti mostro gli ultimi trent’anni.

bilico grafico
bilico grafico

I: La linea blu sta sopra quella rossa, quindi tutto bene per Wall street

E: Sì, ma molto meno che in passato. C’è meno di un punto e mezzo percentuale tra la linea blu e quella rossa, quindi puoi immaginare dove voglio andare a parare.

I: Sull’aumento dei tassi

E: Appunto, chi pensa che esista un’economia nuova non si illuda. Quello che è cambiato è la maggiore volatilità inattesa, quella degli eventi estremi, che schiaccia rispetto a trent’anni fa, la linea blu. La Borsa è obbligata a crescere con i dividendi, se no non paga il premio di autoassicurazione. Il periodo d’oro, dell’investimento in Borsa con rischi ragionevoli è storicamente alle spalle. E’ finito nel 2000. Adesso che i rendimenti dei titoli decennali sono al 2,9 per cento e la linea blu è appena al 4,2 per cento, le due sono estremamente vicine, anche se è razionale comprare il rendimento azionario, ma di poco.

I: E per poco, vuoi dire?

E: Per il tempo necessario a colmare gli 1,3 punti di differenza

I: Si potrebbe rialzare la linea blu, non credi?

E: E’ legata alla crescita del Pil e dei profitti reali, se pensiamo che il sistema sia già tirato, direi di no

I: Quindi siamo in bilico

E: Pensa all’inflazione nascosta e a quella mal misurata. Il risveglio dei tassi è sempre noiosamente svogliato, poi accelera.

I: come nel 1994

E: Sì, rispetto ad allora la Fed cerca di comunicare in anticipo le sue intenzioni, per non sorprendere i mercati e far sì che incorporino gradualmente i cambiamenti della politica monetaria. Però potrebbe sfuggire di mano.

I: speriamo di no

E: speriamo 

Le puntate precedenti:

http://www.centroeinaudi.it/lettera-economica/articoli-lettera-economica/asset-allocation/4505-dialogo-semiserio-tra-un-economista-e-e-un-investitore-i.html

http://www.centroeinaudi.it/lettera-economica/articoli-lettera-economica/asset-allocation/4512-dialogo-tra-un-economista-e-e-un-investitore-i-seconda-parte.html

http://www.centroeinaudi.it/lettera-economica/articoli-lettera-economica/asset-allocation/4518-dialogo-tra-un-economista-e-e-un-investitore-i-terza-parte.html