Da qualche tempo – da quando in Italia il cosiddetto “salotto buono” è venuto velocemente meno - si è accesa una vivace discussione sul controllo delle imprese. C'è chi vede nella fine del sistema che ruotava intorno a Mediobanca la liberazione delle energie imprenditoriali – chiamiamoli i “mercatisti” -, e c'è chi vede nella dispersione delle forze un pericolo, e dunque cerca nella Cassa Depositi e Prestiti una nuova Mediobanca, o, forse, addirittura una nuova IRI – chiamiamoli i “dirigisti” (1). Accade che alcuni non giudichino negativamente il ruolo giocato dalle Fondazioni bancarie.
La discussione non è astratta come può sembrare. In Italia avevamo un sistema che premiava nelle grandi imprese gli azionisti di riferimento e i sindacati, con gli azionisti di minoranza che venivano chiamati – con espressione crudele, ma realistica – il “parco buoi”. E' giunto il momento di premiare anche in Italia tutti gli azionisti – grandi e piccoli - come si pensa si faccia nei Paesi anglosassoni, ossia è arrivato il momento dello “shareholder value”?
L'espressione, coniata negli Stati Uniti negli anni Settanta e poi diffusasi nei due decenni successivi, sostiene che gli interessi degli azionisti sono quelli che vanno perseguiti, perché sono gli unici di natura “generale”. Ossia, facendo gli interessi degli azionisti si fanno gli interessi di tutti – dipendenti, clienti, eccetera. Essa si contrappone al modello dello “stake holder value”, in voga fino ai primi anni Ottanta, che sostiene, che le imprese devono, invece, tenere conto di tutti gli interessi, perché questi non sono facilmente allineabili dietro a uno solo, quello degli azionisti.
C'è chi sostiene che il perseguimento degli interessi degli azionisti pur con tutti i suoi difetti è meglio delle alternative, che realisticamente sono il “dirigismo” e/o i “salotti buoni”. E' un ragionamento che ricorda la definizione delle democrazia fatta da Churchill: “la democrazia è la peggiore forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle che sono state sperimentate”. C'è chi sostiene che il perseguimento dell'interesse di tutti attraverso quello degli azionisti funzionerebbe, non fosse che i prezzi delle azioni, che sono - nel modello dello “share holder value” - il centro del sistema, sono frequentemente inefficienti.
Insomma, si sta chiarendo il bivio. L'Italia crescerà meglio se più “mercatista”, oppure – per crescere – avrà ancora bisogno di una qualche “dirigismo”? Il bivio è politico. Delle regole che aiutino la crescita di un mercato trasparente e concorrenziale, oppure il mondo tradizionale, quello in cui si pensa che, poiché alcuni sono più saggi degli altri – come i sapienti di Platone, oppure i Mandarini –, è bene che siano i pochi a governare.
(1) http://www.linkiesta.it/capitalismo-italiano-decadenza#ixzz2ZtG4MqnY
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