L'”austerità” da qualche anno è entrata nella vita di tutti i giorni. L'Austerità va intesa come Continenza che si contrappone alla Smoderatezza? L'Austerità va intesa come Misura che si contrappone alla Sregolatezza? L'Austerità è, alla fine, un ritorno all'Ordine? Già, ma che cos'è l'Ordine? Messo mai che si giunga a definire il significato del sostantivo, resta il quesito della sua applicazione in campo economico. L'Austerità si legittima con i Numeri (Debito/PIL, Deficit/PIL, Spread, eccetera), perciò i Numeri vanno visti come entità libere dalle passioni e dagli interessi degli umani e perciò dotati di Verità. I numeri – per essere legittimi – debbono essere Fatti incontrovertibili e non Interpretazioni opinabili. Già, ma è proprio così? Si potrebbe andare avanti con il gioco dei rimandi. Quel che preme sottolineare è come l'Austerità sia un argomento piuttosto sfuggente oltre che complesso. Di seguito - in quattro puntate - si prova a sbrogliare la matassa.
Partiamo dalla parte noiosa, quella contabile, di cui si deve avere conoscenza se si vuole discutere di austerità. Mostriamo poi i nodi da sciogliere nel campo delle politiche fiscali. Nodi che non si risolvono in sede tecnica, perché non si ha un punto di vista condiviso. Si ha, infine, il nodo della politica monetaria. Che cosa potrebbe accadere se i rendimenti del debito pubblico salissero? Ci chiediamo se non non ci sia dell'altro da prendere in considerazione: perché la politica nell'Europa continentale è così “grigia”, e perché si vuole il controllo dei debiti dei diversi paesi dell'euro-area? La conclusione è che un rilancio fiscale può esserci solo a condizione che i debiti pubblici siano sotto controllo. A questo punto l'Austerità si mostra come un processo storico che parte da lontano. La crisi del 2011 è il passo successivo. E' la prova di laboratorio di molte delle cose discusse. Si parte dalla confutazione che possano esserci dei complotti funzionanti. Se non ci sono i complotti allora si torna al processo storico. Si mostra come il famigerato spread abbia degli aspetti molto tecnici e poco mediatici. Le polemiche sulla spesa pubblica più o meno elevata richiedono un chiarimento contabile: la spesa tradizionale – quella per il funzionamento della macchina statale - pesa più o meno allo stesso modo nei diversi paesi. E' quella per lo Stato Sociale che è diversa. La spesa pubblica italiana è elevata per effetto della spesa per pensioni. Si discute, infine, di sistemi a ripartizione e ad accumulazione. Il pamphlet termina con delle considerazioni di natura generale.
Prima parte: non solo contabilità
1 - Del ridurre il debito pubblico
2 - Dei vincoli di Maastricht
3 - Del pareggio di bilancio
4 - Austeri e non
5 - Due politiche fiscali
6 - Il costo compresso del debito
7 – Digressione sull'evasione fiscale
Sintesi della prima parte
Seconda parte: l'Europa del Dopoguerra
8 – La scelta del grigiore
9 - Come arrivare ad un bilancio unico
10 – La sovranità perduta: il caso della Grecia
Sintesi della seconda parte
Terza parte: la crisi del 2011 e il sistema pensionistico
11 – Complotti
12 – Lo spread “giusto”
13 - Il “vero” peso del settore pubblico
14 – Il nodo delle pensioni
Sintesi della terza parte
Conclusioni
15 – I processi storici non sono lineari
16 – Dalle parrocchie ai parametri
Prima parte: non solo contabilità
1 - Del ridurre il debito pubblico
Assumiamo che un debito pubblico eccessivo non vada bene, perché impedisce alla spesa pubblica di muoversi come dovrebbe: invece di verniciare le scuole materne, ecco che paga gli interessi sul debito. Se ammettiamo che questo sia vero – ossia che un debito eccessivo (si noti: non il debito per se) vada evitato, allora chiediamoci in quali modi il debito pubblico possa essere messo sotto controllo. Il debito pubblico – più precisamente il Debito/PIL - può essere messo sotto controllo in quattro modi (con una variante).
1- grazie all'inflazione. Il debito è rimborsato alla pari, e quindi per l'ammontare pattuito (cedole e capitale) prima che ci fosse l'inflazione. Le entrate dello stato con l'inflazione però aumentano, perciò l'onere da interesse si contrae, come quota delle entrate fiscali. Lo stato rimborsa tutto, ma in una moneta svalutata. Una opzione che è stata usata dopo la Seconda Guerra in Italia.
2 - dichiarandosi insolventi (il famigerato default). In questo caso le cedole non sono pagate ed il debito non è rimborsato, ma prima che lo stato possa ripresentarsi sui mercati passano molti anni, perché la sua reputazione è crollata. In Italia non è mai accaduto.
3 - con una patrimoniale. Questa c'è già stata, e negli ultimi anni si è manifestata con le maggiori imposte sulle abitazioni (poi riviste nella direzione della loro riduzione) e sulle attività finanziarie.
4 - con un bilancio dello stato in avanzo prima di pagare gli interessi. Se l'avanzo – detto primario – è pari all'onere da interessi non sono più emesse obbligazioni, perché il bilancio è in pareggio. Il numeratore – il debito – non cresce, mentre cresce il denominatore, il PIL. In questo modo il Debito/PIL scende. E' la scelta in corso, quella del “pareggio di bilancio” tendenziale.
La variante della quarta modalità è il consolidamento. Il Tesoro paga le cedole, ma non rimborsa il capitale, e quindi non si trova in condizione di debolezza quando va alle aste. Naturalmente, il bilancio pubblico deve essere in pareggio, qualunque cosa accada, perché non possono essere emesse nuove obbligazioni. Questa fu la scelta fra le Guerre Mondiali, e smise di funzionare con il finanziamento della Seconda guerra.
Oggi la scelta (si ha chi la contesta, come vedremo più in là) in Italia è la quarta, senza che vi sia alcun sentore che possa apparire la sua variante. La prima è impossibile da attuare, da quando si ha la Banca centrale in comune. La seconda non è pensabile in un contesto di mercati aperti. La terza ha fatto il suo tempo (ed è stata parzialmente attuata).
La scelta di avere un bilancio pubblico in avanzo (saldo primario positivo) prima di pagare gli interessi si presta a due considerazioni. Che cosa succede se il saldo primario non copre interamente l'onere da interessi e che cosa succede se lo copre. Nel primo caso, il disavanzo deve restare entro il 3% - i vincoli di Maastricht, nel secondo – il vincolo costituzionale del pareggio di bilancio, il debito pubblico si riduce automaticamente nel corso del tempo. Attenzione, che sotto la noia contabile si nasconde molta politica.
2- Dei vincoli di Maastricht
Immaginiamo che il primo anno (t0) il PIL sia pari a 100 euro. Immaginiamo (sempre a t0) un debito pubblico pari a 60 euro. Immaginiamo (sempre a t0) un deficit pubblico pari a 3 euro. I vincoli di Maastricht sono soddisfatti? Vediamo. Il debito pubblico cresce tanto quanto il deficit, pari a tre euro, perché quest’ultimo è finanziato solo con l’emissione di obbligazioni. Perciò all’inizio del secondo anno (a t1) avremo un debito pari a 63. Se il PIL resta eguale a 100 il rapporto debito PIL passa (sempre a t1) al 63%. E dunque non va bene. Manca un passaggio, la crescita del PIL. Se il PIL crescesse di 5 euro (sempre a t1), avremmo un debito di 63 su un PIL di 105. Perciò – 63/105=60% – il vincolo sarebbe soddisfatto. Perché mai 5 euro di crescita? Ai tempi in cui fu discusso il Trattato si aveva una crescita del PIL reale del 3% e dell’inflazione del 2%. Era – allora – il tasso di crescita normale del PIL. Ai tempi del Trattato le economie europee crescevano (reale più nominale) del 5%, e i debiti pubblici erano in media intorno al 60%. Data la crescita del 5% e dato il vincolo del debito sul PIL del 60%, il deficit compatibile è del 3%.
Lo scopo del trattato di Maastricht era quello di vincolare la spesa pubblica “allegra”. E con questi due numeri si otteneva lo scopo. Come si vede non si ha alcuna teoria dietro i numeri. L’assunto era che, se si accetta che la spesa pubblica in deficit possa crescere molto sulla base della considerazione che “fa bene” all’economia, allora non la si ferma più. Dunque nessuna teoria sulla crescita trainata dal deficit pubblico è ammessa proprio per evitare l'“assalto alla diligenza” del “partito della spesa".
3 – Del pareggio di bilancio
Il nostro rapporto debito PIL è oltre il doppio del vincolo di Maastricht, ossia circa il 130%. Perciò va più che dimezzato. Chi è polemico verso la costruzione dell'euro area fa – non si sa se perché il tema è popolare, oppure perché non è chiaro il meccanismo – questo ragionamento. Il nostro debito è superiore ai due mila miliardi e dunque per dimezzarlo in venti anni si debbono abbattere mille miliardi, ossia 50 miliardi ogni anno. Da qui la catastrofe, perché non li possiamo trovare, tagliando le spese, oppure alzando le imposte.
Non è così, non si tratta, infatti, di abbattere il debito in termini assoluti. Abbiamo al numeratore il debito – circa due mila miliardi - e al denominatore il PIL – circa mille e seicento miliardi. Come si fa a raggiungere l'obiettivo del 60%? Se il deficit pubblico è pari a zero, non viene generato nuovo debito. Perciò il debito resta sempre pari a due mila miliardi circa. Se il PIL cresce dell'uno per cento in termini reali e del due per cento come inflazione, allora cresce del 3%. Il 3% di 1.600 miliardi sono 48 miliardi. Perciò il rapporto debito PIL scende di 48 miliardi. Il secondo anno il PIL è di 1.648 miliardi. Esso cresce ancora del 3% e nel secondo anno il PIL è pari a 1.697 miliardi. Perciò il rapporto debito PIL scende ancora per circa 50 miliardi, e così via. Pian piano si raggiunge l'obiettivo.
4- Austeri e non
L'austerità è la politica fiscale restrittiva. Le uscite dello stato sono messe in rapporto alle entrate al netto del pagamento degli interessi. Laddove le entrate (le tasse) siano superiori alle uscite (la spesa) si ha surplus primario, altrimenti un deficit. Bene, si prendano i quattro maggiori paesi dell'euro zona e si osservino i surplus e i deficit. La Germania e l'Italia hanno quasi sempre avuto dei surplus primari – ossia sono state austere, mentre la Francia e soprattutto la Spagna hanno avuto dei deficit primari molti consistenti – ossia non lo sono state. I numeri si trovano qui a pagina 78:
http://www.imf.org/external/pubs/ft/fm/2016/01/pdf/fm1601.pdf.5
5 – Due politiche fiscali
Si ha chi vuole che si continui con le politiche di austerità fiscale, e chi pensa che queste vadano interrotte. Il dibattito mette insieme proposizioni teoriche, critiche sui risultati delle ricerche empiriche, nodi politici. Qual è l'architettura degli “austeri”, quelli che prediligono il “Fiscal Compact” (FC), e quella degli altri che prediligono il “Fiscal Growth” (FG).
Il FC è l'idea che i saldi del bilancio pubblico vadano portati in pareggio (quasi) in qualsiasi contesto economico. A saldi fra uscite e entrate pari a zero (ossia con deficit di bilancio nulli) il debito pubblico non è più emesso. A quel punto, il debito non può che decrescere il rapporto all'andamento dell'economia (come misurata dal PIL), perché questa, per quanto possa crescere poco, alla fine cresce. Per rendere credibile il “vincolo di bilancio” (i deficit nulli), esso va accolto come regola costituzionale.
I seguaci del FC sostengono che, una volta che i debiti pubblici non crescano più, torna “la fiducia”. Come fa a tornare la fiducia? Secondo questo schema: 1) i cittadini tendono a spalmare i propri consumi nel tempo, se hanno un reddito maggiore (della media del proprio reddito) spendono meno e risparmiano, mentre, se hanno un reddito inferiore, spendono di più e de-cumulano il risparmio. 2) se sospettano che il maggior debito pubblico in futuro – per essere ripagato - “comanderà” più imposte, ecco che spenderanno meno oggi. Se, invece, prevedono che le imposte saranno inferiori, perché i debiti pubblici saranno sotto controllo, ecco che oggi spenderanno di più.
Il FG è l'idea del rilancio dell'economia attraverso una politica fiscale attiva – ossia con il deficit pubblico finanziato con l'emissione di debito. Si parte dall'assunto che la compressione della domanda di origine pubblica e il rialzo delle imposte - in assenza di un livello adeguato di consumi e investimenti del settore privato – possa spingere l'economia nella trappola della mancanza di crescita. L'altro assunto è che non si sa se un debito pubblico cospicuo sia o meno un freno alla crescita; potrebbe, infatti, essere vero il contrario, ossia che è la modesta crescita ad alimentare il debito.
Perciò l'emissione di nuovo debito porta la crescita, che consente di mettere sotto controllo il debito. In altre parole, si ha il paradosso che è il debito a scacciare il debito. Attenzione, la gran spesa pubblica in deficit per sé non porta automaticamente ad una grande crescita. La spesa pubblica in deficit funziona, infatti, solo sotto certe condizioni. L'espansione dell'economia (purché sia in partenza depressa, ossia con una sotto occupazione degli impianti e della manodopera) attraverso un maggior deficit pubblico senza per questo avere un aumento del debito pubblico (in percentuale del PIL) è possibile. Ciò avviene se il deficit pubblico alimenta la domanda aggregata per una somma maggiore della spesa iniziale in deficit (ossia, se il moltiplicatore della spesa è significativo), a condizione che il costo del debito sia inferiore al tasso di crescita dell'economia. Si assume, infine, che la politica monetaria sia fuori gioco, ossia che i tassi stiano per qualche tempo intorno allo zero.
In Italia il costo del debito è pari - sulla media delle scadenze delle obbligazioni dai tre mesi ai trenta anni – a poco più del 3%. Poniamo che il costo del debito resti invariato a fronte della ripresa della spesa pubblica in deficit. La crescita economica (reale e nominale) che riduca il peso (percentuale) del debito pubblico che si dovrebbe avere deve perciò essere intorno al 4%. La crescita economica dovrebbe perciò mostrare un tasso di inflazione (il deflatore del PIL) intorno al 2% (il valore corrente è più basso), e una crescita reale intorno al 2% (la crescita negli ultimi anni è stata più bassa).
Nel caso del FC sono troppe le assunzioni che debbono incastrarsi per avere un ritorno non troppo distante nel tempo dei frutti della fiducia. Nel caso del FG i numeri non “girano” molto facilmente. Per esempio, in Italia. Insomma, se la ricostruzione delle due opzioni di politica fiscale fatta fin qui è valida, non ci si riesce a “schierare” facilmente. La politica però preme, ed ha dei tempi stretti rispetto a un dibattito economico che convinca tutti. Si deve perciò cercare una soluzione “pratica”.
6 – Il costo compresso del debito
Si hanno davvero dei deficit e dei debiti che vengono e vanno a seconda delle necessità? Ammettiamo che nei tempi delle “vacche magre” i deficit e l'emissione del debito aiutino a uscire dalla crisi. Una volta che sia usciti dalla crisi, vale a dire quando tornano le “vacche grasse”, il bilancio pubblico in surplus mangia il debito emesso in precedenza, e si torna al punto di partenza, oppure no? Ossia, il debito arriva e poi va via, e dunque nel lungo termine non cresce mai, oppure no?
Chi più chi meno, tutti i paesi sviluppati non riescono a contenere i deficit e ad evitare di accumulare debito. La crescita perpetua del debito è, infatti, il luogo dove si materializza la ricerca del consenso. Il gran debito pubblico che si è cumulato e che non si riesce a ridurre è un punto molto delicato. Negli ultimi anni esso è cresciuto molto, ma esso costa molto meno di quanto sia mai costato in passato. Il debito è rinnovato nelle scadenze brevi a dei tassi prossimi allo zero, in quelle lunghe con dei rendimenti inferiori al 2 per cento.
Una “curva dei rendimenti” così compressa, a meno di durare per decenni, è molto pericolosa. Che cosa accadrebbe, infatti, se si alzasse? Il costo del debito pubblico emergerebbe, e il bilancio pubblico si troverebbe a dover pagare degli oneri da interesse molto alti, come è accaduto in Italia prima dell'adesione all'euro, quando il debito costava il 10 per cento del PIL.
Il che implica per il bilancio pubblico il dover ridurre la spesa negli altri ambiti, a meno di spingere i percettori di cedole verso l'eutanasia. Da qui il bivio: con dei rendimenti normali e un gran debito pubblico o si taglia la spesa pubblica per pagare gli oneri finanziari, oppure si comprimono gli oneri finanziari - la cosiddetta “repressione finanziaria”, che è l'imposizione ai fondi pensione, alle assicurazioni, e alle banche di quote di titoli pubblici con rendimenti bassi.
Alla fine qualcuno pagherà i costi dell'aggiustamento dei bilanci pubblici. Nel Secondo Dopoguerra la combinazione di una grande crescita ha consentito di mettere sotto controllo i debiti pubblici. La gran crescita del Secondo Dopoguerra è oggi molto improbabile. Perciò chi pagherà di più o di meno sarà deciso nell'arena politica: i cittadini come fruitori di servizi pubblici ridotti e/o i cittadini con maggiori imposte e/o i cittadini come sottoscrittori di obbligazioni che rendono meno del tasso di inflazione.
Insomma, al centro della scena avremo la politica con i mercati come coro.
7 – Digressione sull'evasione fiscale
Secondo i conti della Commissione Europea, l'evasione (= non pagare le imposte dovute) e l'elusione fiscale (= usare tutte le vie legali per ridurre le imposte dovute) ammontano a mille miliardi di euro. Il PIL dell'Unione Europea è di 15 mila miliardi, e dunque se tutti pagassero le imposte, si avrebbero, tutto il resto restando eguale, degli introiti (circa il 6 per cento) superiori ai deficit dei paesi membri. Il problema dell'austerità sarebbe risolto, perché, se questi maggiori introiti non venissero spesi, si avrebbero i bilanci in largo attivo e quindi una veloce riduzione del debito cumulato. In alternativa si potrebbe, una volta eliminati i deficit, ridurre il carico fiscale.
L'Italia è uno dei paesi con la maggiore evasione. La stima è di un 20 per cento del PIL. Anche qui, immaginando che un terzo dell'evasione prenda la forma delle imposte, avremmo un sette per cento circa di maggiori introiti. Il deficit dello stato scomparirebbe e si potrebbero tagliare le imposte. E' un luogo comune del dibattito politico (“pagare tutti per pagare meno”).
Non è però così facile eliminare l'evasione.
Intanto il 20% di evasione è una media fra la Lombardia dove si evade molto poco – un 10% circa, come in Germania – e la Calabria dove si evade moltissimo – un 50% circa. Un'ulteriore raccolta fiscale frutto della “lotta all'evasione” sarebbe di dimensioni ridotte in Lombardia (una percentuale modesta del PIL di una regione ricca), e di buone dimensioni in Calabria (una percentuale altissima del PIL di una regione povera). Regioni povere ad evasione altissima sono anche la Sicilia e la Campagna.
Bisogna poi vedere quanta parte dell'evasione non sia altro che un modo (illegale) di sostenere il reddito. Un po' come in Grecia le pensioni dei nonni aiutano i nipoti, in assenza di una rete di protezione sociale diffusa e offerta dallo stato. In conclusione, in Italia l'evasione fiscale e la Questione Meridionale si sovrappongono.
Sintesi della prima parte
Immaginiamo il debito pubblico come l'acqua in una vasca da bagno (lo stock) e il deficit come l'acqua che esce dal rubinetto e dallo scolo (il flusso). La vasca si riempie o si svuota a seconda di come vanno le cose fra il rubinetto e lo scolo. Se il saldo primario è positivo – se le uscite non finanziarie sono inferiori alle entrate – ecco che si apre lo scolo e il debito si riduce. Avanza però il pagamento degli interessi – il rubinetto. Se questo è eguale al surplus primario il rubinetto riempie la vasca tanto quanto lo scolo la svuota – e il debito resta eguale. Se il pagamento degli interessi è maggiore del surplus primario, il rubinetto riempie la vasca più di quanto lo scolo la svuoti – e il debito cresce.
In Italia lo scolo è aperto, ma non è molto largo, mentre il rubinetto getta ormai poca acqua nella vasca grazie alla compressione dell'onere del debito. La tentazione in Italia, avendo il debito sotto controllo, diventa quella di fare poco, perché il più è stato fatto. Il rischio però c'è: se il costo del debito risale (il rubinetto alza il gettito d'acqua), in assenza di uno scolo largo (un surplus primario adeguato), si può avere di nuovo una crisi.
Si deve continuare con l'austerità – ossia con le politiche fiscali non espansive, aspettando che maturino i suoi frutti “virtuosi”, oppure la si può “addolcire” con delle politiche espansive? Secondo i seguaci dell'austerità il debito pubblico “non va e viene”, ma cresce sempre, perché è il luogo dove si materializza il consenso. Perciò i deficit vanno congelati per impedire che alimentino dei debiti ingestibili. Secondo i critici dell'austerità esiste una ricetta per la quale il debito che cresce sempre può persino andare sotto controllo: la crescita spinta dal deficit può, infatti, essere maggiore del debito che la ha finanziata. E' molto difficile scegliere fra le due ricette sulla sola base di considerazioni economiche. E qui arriva la politica.
Seconda parte: l'Europa del Dopoguerra
8 – La scelta del grigiore politico
La Seconda Guerra termina in un bagno di sangue e drammatici trasferimenti di popolazione. Alcuni – essenzialmente tre politici cattolici, Adenauer, Shumann, e De Gasperi, tutti e tre avanti negli anni e di lingua tedesca - arrivano alla conclusione che all'origine della tragedia ci fosse il sistema politico a fondamento carismatico.
I sistemi politici possono essere – secondo la classificazione di Weber – di tre tipi: quello in cui la legittimità è nella tradizione, come nelle Monarchie, quello in cui la legittimità è nella logica fredda delle Leggi applicate dalla Burocrazia, come nei sistemi liberali, e, infine, quello la cui legittimità è nella simbiosi fra Popolo e Carisma. In questo ultimo caso, si ha una spinta di “senso”, perché si ha una identificazione fra il Popolo – ridotto a entità magmatica – e il Leader – che, ispirato, lo conduce verso i suoi più alti destini.
Insomma, dopo la Seconda Guerra, l'idea che era prevalsa era quella di un sistema sopranazionale, e di un governo della Legge, e dunque il governo della Burocrazia, che, per definizione, emana solo “grigiore”. Insomma, l'idea della “de-nazionalizzazione” delle masse con i sistemi politici avvolti in ragnatele giuridiche – come l'Alta Corte che è il decisore di legittimità di ultima istanza - era il cuore della nuova Europa.
Non si tornava però al sistema liberale ante Prima Guerra, quello dello Stato Minimo (Amministrazione, Difesa, Giustizia), ma al sistema di Stato Sociale (Stato Minimo + Sanità, Istruzione, Pensioni). Questo avvenne e per ragioni culturali - la prevalenza cattolica e del suo “solidarismo”, e per ragioni politiche, perché delle forme di “stato sociale” erano già emerse con i Totalitarismi e non potevano essere rigettate
9 – Come arrivare ad un bilancio unico
Un'area economica è “ottimale” se, avendo la stessa moneta: 1) ha un mercato dei prodotti comune; 2) ha un mercato dei capitali comune; 3) ha un mercato del lavoro comune; 4) ha un bilancio fiscale comune. L'euro area soddisfa i requisiti 1) e 2). Non soddisfa, in parte o in tutto, i requisiti 3) e 4).
Prendiamo gli Stati Uniti relativamente al punto 3). Se non c'è lavoro nell'area occidentale, la gente va in quella orientale. Relativamente al punto 4), se l'area occidentale è mal messa, ecco che il bilancio federale, che incassa imposte da entrambe le aree, ma, nell'esempio, ne incassa di più dalla parte orientale, trasferisce i fondi verso l'area occidentale.
Attenzione, i bilanci statali statunitensi non possono andare in deficit, se non per spese definite come quelle per infrastrutture, e quindi possono emettere solo dei “project bonds”, e perciò solo quello federale ha questa facoltà. Gli stati non possono andare genericamente in deficit – possono sempre alzare le spese se alzano le imposte -, perché altrimenti sarebbero tentati dal farlo, contando che, alla fine, il loro debito statale sarà salvato da quello federale.
La prima differenza dell'euro area con gli Stati Uniti è che, se il Portogallo va male e l'Olanda va bene, è difficile che i lusitani si trasferiscano in massa – per problemi di lingua e di abitudini - nei Paesi Bassi. La seconda differenza è che i bilanci statali dei Paesi dell'euro-area possono andare in deficit, sebbene entro i vincoli (più o meno disattesi) di Maastricht (il famigerato deficit del 3% del PIL, e l'altrettanto famigerato tetto del debito del 60% sul PIL). Non esiste, infatti, nell'euro-area un governo centrale che copra – raccogliendo le imposte da tutti e in caso di crisi di più da alcuni - i deficit degli stati membri.
La Germania (con i Paesi detti “virtuosi”) non garantisce il debito degli altri Paesi. E dunque, quando i Paesi si indebitano troppo, senza dar mostra di poter ripagare il debito cumulato, ecco che l'euro-area conta che i mercati finanziari li “puniscano”, ossia che chiedano un “premio per il rischio”. L'euro-area funziona se i mercati finanziari puniscono le “cicale”, premiando chi è “formica”, ma questo non è avvenuto sempre. Per anni la Grecia ha, infatti, pagato sul proprio debito pubblico un rendimento di poco superiore a quello tedesco.
Perciò nella costruzione dell'euro-area si ha un mercato comune dei prodotti, dei capitali, ma si ha un modesto mercato del lavoro omogeneo, e non si ha – forse un giorno, quando tutti gli Stati dell'euro area avranno il bilancio in pareggio con esenzioni definite per l'emissione di obbligazioni come avviene negli Stati Uniti - un sistema di trasferimenti federale di tipo “automatico”. I trasferimenti che si sono avuti negli ultimi tempi con il “Fondo Salva Stati” sono stati, infatti, tutti oggetto di un lungo negoziato. Possiamo perciò immaginare l'euro-area come un'area economica parzialmente ottimale.
10 – La sovranità perduta: il caso della Grecia
Si hanno le problematiche nascoste, che sono quelle relative all'interazione fra integrazione economica, stato nazionale, e democrazia. Per evitare discorso astratto, partiamo dalla vicenda pensionistica. Le pensioni – in un sistema detto “a ripartizione”, laddove lo stato è l'intermediario fra chi lavora e chi si è ritirato, con i primi che versano le pensioni ai secondi - sono finanziate dai contributi dei lavoratori e dei datori di lavoro.
Anche in Grecia avviene lo stesso, ma i contributi erano pari a due terzi delle pensioni erogate prima della crisi, e sono diventati pari a poco più della metà durante la crisi. Il sistema pensionistico greco ha anche dei beni reali e finanziari, che però rendono poco, per cui, alla fine, la differenza fra le entrate del sistema pensionistico e le sue spese – con le seconde che sono il doppio delle prime - è a carico del bilancio dello stato. Questa differenza è pari a 13 miliardi di euro l'anno ogni anno, un esborso, a sua volta, pari al 15% delle entrate statali.
Come mai il sistema pensionistico è sotto finanziato? I contributi dei datori di lavoro sono in linea con quelli degli altri Paesi, ma non lo sono quelli dei lavoratori. Come mai? I lavoratori autonomi sono molto numerosi e con un reddito modesto, come si può immaginare che siano in un paese di servizi turistici. I greci “privati” non vanno in pensione molto prima degli altri europei, ma contribuiscono meno - quando sono attivi - al funzionamento del sistema pensionistico. I greci “pubblici” vanno, invece, in pensione molto prima degli altri europei. Perciò abbiamo un sistema incapace di finanziare le pensioni senza il contributo dello stato.
Senza il contributo dello stato le pensioni sarebbero dimezzate. Le pensioni in un paese di “famiglia allargata” sono molto più che delle pensioni, perché compensano la mancanza di servizi pubblici estesi. I nonni mantengono i nipoti disoccupati, potremmo dire. Per tagliare la pensione ai nonni dovresti dare un sussidio di disoccupazione o un reddito di cittadinanza ai nipoti, potremmo aggiungere. Oppure ancora, dimezzare le pensioni e non offrire i servizi pubblici estesi.
Se la Grecia fosse in grado di finanziare agevolmente le pensioni pur con tutte le loro distorsioni – alcuni sono privilegiati, come i pensionati statali, ed il sistema pensionistico nel complesso svolge anche il compito improprio di “stato sociale” - nessuno potrebbe dire niente. Insomma, se i greci votano per dei governi che tengono in vita questo sistema pensionistico, essi esercitano la propria “sovranità”. Nel momento in cui diventano un Paese insolvente - ossia incapace di pagare il debito pubblico, debito che si è potuto accumulare grazie all'integrazione economica – ecco che debbono soddisfare le richieste dei creditori. I quali creditori vorrebbero un sistema pensionistico moderno – ossia che distribuisca solo pensioni e che non assolva altri compiti – che però esiste solo nelle economie con una base industriale forte e stato sociale diffuso. Insomma vogliono la Germania in Grecia. La democrazia esercitata in uno stato sovrano, in assenza di crisi economica, probabilmente manterrebbe il sistema pensionistico attuale, che serve molti e diffusi interessi. In questo caso, avremmo una “sovranità” che tiene in vita un sistema arcaico. La pressione a cambiare sistema spinge, invece, verso la “modernità”, ma limita la “sovranità”.
Sintesi della seconda parte
Alla fine dell'ultima guerra si giunge alla conclusione che i sistemi vadano “de-nazionalizzati” e quindi privati dal rischio di avere dei “duci”. La scelta è quella del “grigiore” politico al cuore di un sistema che combina il liberalismo classico con lo Stato Sociale. Decenni dopo il sistema è dotato di una moneta unica – l'euro. Per avere un sistema funzionante si debbono avere i bilanci pubblici dei diversi paesi in pareggio. In questo modo il debito pubblico di ciascuno non cresce. Lo scopo è quello di avere un bilancio in comune che può, invece, andare in deficit – proprio come funziona il sistema statunitense. La cessione di quote di sovranità è una scelta fatta da molto tempo. Un caso esemplare del conflitto fra Sovranità e Democrazia in un paese in via di modernizzazione è quello greco. Nella sintesi della prima parte avevamo sostenuto che è molto difficile scegliere fra le due ricette di politica fiscale (Fiscal Compact versus Fiscal Growth) sulla sola base di considerazioni economiche. L'analisi politica ci porta a dire che il Fiscal Compact ha già un retroterra solido, mentre il Fiscal Growth può essere abbracciato solo se tutti sono d'accordo.
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