L'argomento è di ordine politico, ma ha un impatto economico. I sauditi minacciano di vendere le attività finanziarie canadesi in loro possesso come ritorsione per la richiesta del Paese Nord americano di rilasciare un'attivista per i diritti civili. La vicenda è l'occasione per ragionare sulle pressioni esterne che i Paesi possono ricevere. Un caso interessante è quello di trenta anni fa del Sud Africa. 

Una ritorsione finanziaria che agisca nei mercati globali - e quindi interconnessi, è facile da attuare, come sembra essere il caso specifico dell'Arabia Saudita e del Canada. Le ritorsioni possono però essere anche “invisibili”, ossia agire come “censura preventiva”. Per esempio, le ricche donazioni fatte dai produttori di petrolio alle università statunitensi sono un veicolo di influenza per la costruzione dell'immagine che i succitati finanziatori vogliono che si abbia di loro.

Dal Financial Times (1) sul merito della vicenda: “The dispute between Riyadh and Ottawa erupted after Chrystia Freeland, Canada’s foreign minister, called for the release of Samar Badawi, a prominent Saudi women’s rights activist who has family in Canada. Ms Badawi and another activist were arrested last week as part of a government crackdown against dissenting voices, human rights groups said. In response to Ms Freeland’s criticism, Saudi Arabia expelled the Canadian ambassador, froze new trade and investment with the G7 member, suspended a student exchange programme and halted flights by state-owned Saudi Arabian Airlines to Canada. Riyadh also said it was suspending medical treatment programmes in Canada and working to transfer Saudi patients out of the country”.

Una storia incomprensibile o, se vogliamo, perfino ridicola agli occhi di chi vive nei paesi democratici e pensa che i diritti civili siano inalienabili. Eppure i sauditi hanno reagito alla denuncia canadese. Pare – nel senso che vi sono delle “persone informate dei fatti” che lo hanno denunciato - che i gestori non sauditi dell'immensa ricchezza saudita abbiano ricevuto l'ordine di vendere “ad ogni costo” tutte le attività finanziarie canadesi. Ciò che smentirebbe Adel al-Jubeir, il ministro degli esteri saudita, che aveva appena prima dichiarato che non ci sarebbero stati nuovi investimenti in Canada fin tanto che fosse durata la crisi, ma aveva pure aggiunto che quanto già investito non sarebbe stato toccato.

Come che sia il gioco delle ritorsioni finanziarie, va detto che la reazione saudita urta la sensibilità di chi pensa che i diritti civili siano comunque meritevoli di affermazione. Per chi non lo pensa – come può essere i caso di quei sauditi che hanno preso la decisione di punire il Canada - la ritorsione può apparire come un'affermazione di sovranità – di difesa della propria specificità culturale, naturalmente se si hanno i mezzi per poterla manifestare.

I mezzi per la ritorsione possono essere interni, del Paese, come nel succitato caso della ricchissima Arabia Saudita, oppure esterni, come era stato il caso dei Sud Africa. Il quale ultimo è riuscito a passare dal regime dell'apartheid a quello di una rappresentanza politica di tutta la popolazione, grazie a due avvenimenti esterni, di cui il secondo è stato di gran lunga più importante.

Trenta anni fa durante una riunione che vedeva dibattere di temi delicati solo fra le multinazionali centenarie – le altre erano considerate homines novi – venne fuori il problema del Sud Africa. La finanza, che allora stava allargando la propria platea al di fuori dell'area tradizionale dei ricchi, aveva iniziato a vendere dei prodotti dedicati agli afro-americani, dove si dichiarava - per renderli “unici” o, come si usa da qualche tempo dire per collocare i fondi eco-sensibili, “etici” - che non ci sarebbero stati investimenti di sorta nelle imprese che discriminavano “i nativi”. Quindi le multinazionali che operavano in Sud-Africa - intimorite dagli sviluppi finanziari che avrebbero potuto manifestarsi - iniziarono a promuovere i non-Afrikaner per mostrare all'industria finanziaria soprattutto nord americana il proprio impegno anti-apartheid.

E qui le cose si complicano. L'apartheid non è caduto per la finanza “progressista”, che ha spinto le imprese ha favorire la mobilità “etnica”. In una riunione di qualche tempo dopo – ormai caduto il vecchio Sud Africa – chi aveva gestito la transizione – un alto diplomatico britannico – affermò che la vicenda aveva tutt'altra lettura. Ormai da tempo il Regno Unito e gli Stati Uniti avevano deciso – e qui torniamo a “progressismo”, o se si vuole, al “politicamente corretto”, di affondare il regime dell'apartheid, giudicato fuori dallo “Spirito del Tempo”. Ciò che non poteva avvenire fintanto che esisteva l'Unione Sovietica, cui non si poteva certo cedere il controllo della rotta del Capo. Controllo che l'URSS avrebbe potuto ottenere grazie alla presenza di un forte partito comunista radicato nella comunità africana. Caduta l'URSS, la comunità africana capisce che le conviene rinunciare al comunismo, e l'apartheid diventa così qualcosa del passato.

1 - https://www.ft.com/content/b33505ba-9aff-11e8-9702-5946bae86e6d 

Per approfondire:

https://www.centroeinaudi.it/cerca.html?gsquery=arabia+saudita

https://www.centroeinaudi.it/cerca.html?gsquery=sud+africa