Nella polemica politica intorno all'economia si dibatte l'austerità e la finanziarizzazione. Si dibatte se il rilancio dell'economia - dopo la maggior crisi del Secondo dopoguerra – possa passare o meno attraverso una politica economica austera. Si ha chi sostiene che prima della liberalizzazione finanziaria l'economia si poteva governare meglio, e chi sostiene il contrario. Per l'austerità il riferimento nel testo che segue è M. Blyth Austerità, Oxford, 2013, per la finanziarizzazione è W. Streeck, Buying Time, Verso, 2017. Le altre parti sono gli articoli apparsi in Lettera Economica e Agenda Liberale.

1 – All'origine dell'Austerità

Locke riteneva che fosse inevitabile l'ineguaglianza che traeva origine dall'esistenza della moneta e della proprietà privata. Accettato questo stato delle cose, Locke riteneva che lo Stato dovesse da un lato occuparsi di lenire la diseguaglianza, ma, dall'altro, occupandosene, lo Stato sarebbe diventato forte a sufficienza per minacciare i diritti di proprietà. Da qui la tensione al cuore del liberalismo: non puoi vivere con lo Stato, perché ti può rubare i tuoi beni, ma, allo stesso tempo, non puoi vivere senza lo Stato, perché la folla potrebbe ucciderti (in originale: “you can’t live with the state, since it might rob you, but you also can’t live without it, since the mob might kill you”).

Una volta che si sia ammesso che non si può fare a meno dello Stato, sorge il problema di come finanziare il suo agire. E qui arrivano Hume e Smith. La soluzione poteva essere quella di emettere del debito pubblico. Ma una volta che lo Stato avesse potuto indebitarsi offrendo dei tassi di interesse attraenti, avrebbe messo in difficoltà i privati che volevano indebitarsi per finanziare le proprie attività. A fronte dello svantaggio per chi cercava il denaro da farsi prestare, si aveva il vantaggio di dare la possibilità ai ricchi (in originale i “merchants”) di vivere di rendita, prestando il denaro allo Stato. Ossia, invece di lavorare e, grazie a reddito prodotto, pagare le imposte volte al funzionamento dello Stato, sarebbe sorto un incentivo a diventare “rentier”. Da questa combinazione sarebbe scaturita una minor crescita economica, con uno Stato indebitato all'inizio con i “suoi” ricchi, ma poi con l'estero. Secondo Hume e Smith, a causa di tutte queste contro indicazioni il veleno (in originale: “poison”) del debito pubblico andava evitato, per quanto potesse apparire come una buona soluzione di breve termine.

Dal XVIII° passiamo al XIX° secolo. Come risolvere il dilemma “non puoi vivere con lo stato, ma non puoi vivere senza lo stato”? Secondo Ricardo, tenendo lo Stato fuori dall'attività economica, perché quest'ultima era capace di auto-equilibrarsi. Secondo Mill, invece, si poteva pensare ad uno ruolo per lo Stato che andasse oltre l'intervento per lenire le diseguaglianze, ma solo quando queste fossero diventate eccessive. Fu lungo queste linee che gli economisti si divisero nel XX° secolo. Quelli detti “austriaci” - Schumpeter, von Mises, von Hayek - seguirono il solco ricardiano, rigettando l'intervento pubblico e il suo debito. Quelli britannici - Beveridge, Keynes - non disdegnarono l'intervento pubblico sistematico solo se necessario e quindi anche il debito, seguendo così il solco milliano.

2 – L'Austerità vince nella diagnosi ma non nella terapia

Negli anni Venti e Trenta la convinzione che l'economia fosse in grado di auto-equilibrarsi è messa in discussione osservando l'alternarsi della crescita e della recessione. Perché si aveva questo alternarsi? Una risposta era quella “austriaca”, ai tempi seguita dai dirigenti politici statunitensi fino al New Deal, e da quellli tedeschi fino alla Volkswirtschaft nazista, che anticipa la politica fiscale espansiva statunitense di qualche anno. In breve: le banche prestano troppo denaro - come volume e con tassi bassi – ciò che spinge l'economia lungo un sentiero di crescita insostenibile, perché incentiva gli investimenti poco efficienti e molto rischiosi – ecco il boom. Alla lunga, la crescita alimentata con questo meccanismo diventa insostenibile, sicché le banche, alla fine, alzano i tassi e riducono il credito. L'economia allora s'ammoscia – ecco il bust. L'economia però, grazie alla crisi, elimina le inefficienze che aveva accumulato e quindi può ripartire motu proprio più solida. L'Austerità è l'evitare questo ciclo di boom e bust. Quindi niente credito facile e niente spesa pubblica “allegra”.

La grande crisi degli anni Trenta e la Seconda guerra spingono però all'interventismo e così l'idea dei mercati che si auto-equilibrano con il potere politico che non interviene nel loro funzionamento passa in cavalleria. Gioca un ruolo la Teoria Generale di Keynes che mina la credibilità dell'idea dell'autoregolazione in base a tre ordini di considerazioni: quelle distributive, di composizione, e logiche.

A) Non usare o tagliare la spesa pubblica quando si è in crisi può avere degli effetti distributivi non desiderati. Chi rimpingua il proprio reddito monetario grazie alla spesa pubblica vede ridursi il proprio tenore di vita, se questa è tagliata. B) Non usare o tagliare la spesa pubblica quando si è in crisi ha degli effetti di composizione che sono negativi. Per ognuno che risparmia si deve, infatti, avere uno che spende altrimenti cade la domanda aggregata. Non usare o tagliare la spesa pubblica quando si ha crisi può non rilanciare la domanda. C) L'idea del rilancio della domanda con l'austerità è questa: se lo Stato non usa o taglia la spesa taglia anche il debito e quindi riduce l'onere fiscale che si sarebbe altrimenti avuto. I privati possono – secondo questo ragionamento - consumare di più fin da oggi perché anticipano il loro maggior reddito netto futuro. Sempre che i privati non consumino meno, perché l'invarianza o il taglio della spesa pubblica accresce la loro incertezza, e quindi alimenta la propensione al risparmio.

La crisi finanziaria iniziata nel 2008 ha mostrato un mondo che sembrava disegnato per dar ragione agli ormai dimenticati ”austriaci”. Le banche che avevano prestato troppo, i consumatori che avevano consumato troppo, e il capitale che era stato investito nei settori meno efficienti come quello immobiliare. Gli “austriaci” erano come conseguenza i vincenti nel mondo della diagnosi, ma non altrettanto in quello della terapia. Infatti, le banche non avrebbero dovuto essere salvate, come, al contrario, è avvenuto, e la spesa pubblica avrebbe dovuto essere compressa per eliminare il debito e le inefficienze, come, di nuovo, non è avvenuto. Un modo non convenzionale per affrontare il punto – sul perché le politiche fiscali scappano di mano – la si trova qui, laddove si trae ispirazione nientemeno che dal Libro della Genesi (1).

3 – La Germania sarà “austriaca” per sempre?

Le idee “austriache” sono sopravvissute dopo la Seconda guerra grazie alla Germania, che poi le ha fatte accettare, ma non del tutto, all'Unione Europea. Sopravvissute, ma con qualche ritocco non marginale: la Germania ha, infatti, salvato con dovizia di mezzi le sue banche che si erano impelagate con i mutui ipotecari statunitensi. La preferenza tedesca per le teorie austriache trasmutate nell'Ordoliberalismus – i.e. il mercato va regolato ma non guidato, lo Stato interviene solo in favore di chi ha davvero bisogno, ha un fondamento nella sua struttura economica.

La crescita economica tedesca è guidata dalle esportazioni. Dopo la Seconda guerra andava ricostituito il capitale fisico distrutto, e quindi andavano compressi i consumi per avere un risparmio sufficiente. Non solo, ma andavano contenuti i costi – per evitare una dinamica salariale maggiore di quella della produttività – che, insieme ad una alta qualità dei prodotti, rendevano particolarmente competitive le merci tedesche. Il controllo dell'inflazione – la stabilità monetaria – rendeva, infine, possibile la compressione dei tassi di interesse praticati dalle banche, grazie ai quali erano in gran parte finanziati gli investimenti. Insomma, l'economia tedesca era (ed è) più trainata dalla domanda estera che da quella interna. Questo modello è ancora in auge e coinvolge anche i Paesi dell'Est Europa detti “cacciavite” - quelli che hanno accolto dopo la caduta del Muro di Berlino una parte della manifattura tedesca. I maggiori Paesi dell'Unione Europea meno legati all''economia della Germania - Francia, Italia, Spagna – sono trainati più dalla domanda interna che da quella estera. Possono così trovarsi a desiderare una politica economica diversa da quella tedesca (2).

L'Austerità è consustanziale alla Germania del Secondo dopoguerra, ma quest'ultima potrebbe, per evitare che una rottura della moneta unica la metta davvero in difficoltà, diventare una “riluttante egemone”, vale a dire cambiare la politica fiscale austera, rendendola più lasca (3).

4 – Del giudicare il Principe

C'è chi oggi propone che gli italiani comperino il proprio debito, e, per incentivarli a farlo, offrirebbe un sovra rendimento – chiamiamolo “patriottico”, così come c'è chi pensa che debba provvedere la Banca d'Italia a sottoscriverlo a sottoscriverlo senza fiatare. A ben guardare, abbiamo la nazionalizzazione del debito insieme alla sottomissione al potere politico della banca centrale. Possono sembrare oggi delle proposte fuori luogo, ma se torniamo indietro nel tempo le troviamo in bella mostra.

Una volta il debito pubblico italiano era detenuto dalle banche italiane. Esso era facilmente governabile, perché le banche erano in gran parte pubbliche. Poi, il debito pubblico era passato nelle mani delle famiglie. Esso era di nuovo facilmente governabile, perché in cambio di rendimenti molto elevati, queste lo sottoscrivevano. Si aveva così un meccanismo di consenso semplice. La politica governava il deficit e quindi il debito prima attraverso le “sue” banche e poi attraverso gli alti rendimenti. In questo modo non si poteva formare un giudizio di merito sul debito italiano. Nel primo caso gli investitori erano “catturati”, nel secondo “sedotti”. In breve, il Principe non faceva molta fatica per riceve il consenso degli elettori. Il debito si sarebbe poi scaricato sui “non nati”, che non votano.

Arriva però in Italia, alla fine e per fortuna, il momento del “mercato”. Nella doppia direzione degli italiani che possono investire all'estero, e dell'estero che può investire in Italia. I giudizi di merito si possono dunque formare. Qual è il premio – il maggior rendimento richiesto - per detenere il debito italiano rispetto a quello tedesco, o di qualsiasi altro paese? In breve, il Principe doveva adesso convincere gli italiani e i non italiani che il suo debito era sottoscrivibile. Cambia la natura del rapporto: il Principe prima non faceva fatica, il Principe adesso s'affatica. Nel primo caso il Principe non doveva convincere nessuno intorno alla tenuta del debito (intorno alla coerenza inter temporale delle politiche economiche), nel secondo, invece, deve farlo.

In conclusione, queste proposte ultime sono “iper-politiciste”, perché mettono la politica al centro della scena. Non si hanno così contrappesi alla politica, contrappesi che sono il succo dell'Ordine liberale. I politici possono riesumarsi come i Sacerdoti che si occupano del benessere altrui, e, in particolare, dei più deboli (4).

5 – Il mondo della liberalizzazione finanziaria

Supponiamo di essere in “piena occupazione”, ossia con i disoccupati che sono solo quelli che stanno cercando un nuovo lavoro – i disoccupati “frizionali”. Intanto, gli occupati - sicuri di trovare un'occupazione – rompono con la disciplina di fabbrica – soprattutto le nuove generazioni che hanno perso la memoria degli anni della precarietà estrema. Inoltre, chiedono degli aumenti salariali non collegati alla dinamica della produttività. Fin qui si intravvede paro paro l'”autunno caldo” italiano degli anni a cavallo fra i Sessassanta e Settanta. Le imprese allora reagiscono alzando i prezzi, ciò che alimenta l'inflazione, che, a sua volta, soffia sul fuoco della tensione sociale, a meno di indicizzare i salari, ciò che però crea altri problemi. E qui si intravvede paro paro lo scontro sulla “scala mobile” emerso nei primi anni Ottanta. In siffatto contesto non si ha inizialmente un'idea per risolvere l'ingovernabilità, mentre piano piano si impone l'idea di trovarla con una maggiore disciplina di mercato che preferisca la stabilità dei prezzi alla piena occupazione (5). Da qui – oltre alle politiche monetarie restrittive volte a sradicare le aspettative di inflazione - lo smantellamento – continuato fino alla fine degli anni Novanta - dei vecchi sistemi di regolazione dei mercati finanziari, nonché l'apertura - la famigerata globalizzazione - dei mercati reali e finanziari.

Da allora si sviluppa l'industria finanziaria che offre soprattutto un'attività sia redditizia sia sicura: il debito dei Paesi “emersi”:

  • Ecco il primo grande mutamento: i governi possono spendere di più senza alzare e imposte, perché possono coprire le maggiori spese con l'emissione del debito (6).
  • Ecco il secondo grande mutamento: gli investitori internazionali prendono l'iniziativi nella formazione dei prezzi delle obbligazioni su quelli nazionali e possono influenzare le scelte dei governi (7).
  • Ecco il terzo grande mutamento: sorge la “privatizzazione del keynesismo”, laddove i privati possono spendere più del reddito corrente grazie ai mutui, alle carte di credito, e così via (8)

 

1 - https://www.centroeinaudi.it/agenda-liberale/articoli/1293-giuseppe-e-il-faraone-due-proto-keynesiani.html

2 - https://www.centroeinaudi.it/lettera-economica/articoli-lettera-economica/commenti/4961-francia-o-germania.html;

3 - https://www.foreignaffairs.com/articles/europe/2018-01-11/how-eurozone-might-split

4 - https://www.centroeinaudi.it/agenda-liberale/articoli/3636-economia-come-religione-da-cambridge-a-chicago.html

5 - https://www.jstor.org/stable/24649339?newaccount=true&read-now=1&seq=1#metadata_info_tab_contents

6 - https://www.centroeinaudi.it/lettera-economica/articoli-lettera-economica/ricerche/1211-il-debito-pubblico-italiano-nel-tempo.html

7 - vedi il § 4 di questa nota: Del giudicare il Principe

8 - https://www.centroeinaudi.it/lettera-economica/articoli-lettera-economica/commenti/148-il-ciclo-immobiliare-moderno.html