La cosiddetta Brexit, cioè l'uscita del Regno Unito dall'Unione Monetaria Europea, presenta più differenze che affinità rispetto alla corrispondente Grexit, per l'importanza del Paese e per la complessità delle relazioni con l'UE.

Le recenti elezioni britanniche hanno registrato un successo pieno del Partito Conservatore che ha ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi (331), pari al 37% dei voti. Dalla tornata elettorale escono sconfitti tutti gli altri competitori, compresi gli alleati del Governo uscente (cioè i Liberaldemocratici), ad eccezione del Partito Nazionale Scozzese, che ha aumentato i consensi (oggi al 4,7% sul totale nazionale degli elettori), conquistando 56 seggi (su 59 a disposizione oltre il Vallo di Adriano).
Il Premier Cameron ha potuto incassare questo eclatante successo grazie alla florida situazione in cui si trova l'economia britannica. Ma proprio la sensibile dissonanza fra il quadro congiunturale britannico e la corrispondente fotografia dell'Unione Europea ripropone, paradossalmente, un "problema" per Cameron. Nel suo primo discorso post elettorale il Premier ha infatti annunciato l'intenzione di indire, entro il 2017, un referendum sull'eventuale uscita dall'EMU.
È la cosiddetta Brexit, cioè l'uscita del Regno Unito dall'Unione Monetaria, ipotesi che presenta più differenze che affinità rispetto alla corrispondente Grexit (uscita della Grecia). Innazi tutto per l'importanza, sia storica che economica, del Paese coinvolto e poi per la complessità delle relazioni con l'Unione Europea.

Andiamo con ordine. Anche la Gran Bretagna è inevitabilmente incappata nella grave crisi di qualche anno fa, cadendo in recessione nel 2009, annus horribilis dell'intera economia planetaria. Ma la successiva guida di un Governo Tory-LibDem ha risanato profondamente la situazione. Si tratta di un'eventualità che non deve stupire, conoscendo la disponibilità strutturale dei cittadini inglesi a serrare le fila davanti ai problemi. Tutti ricordano che di fronte allo spettro della II Guerra Mondiale, Churchill promise ai suoi concittadini "lacrime e sangue".
Senza giungere a tali livelli, la gestione Cameron ha posto il risanamento della economia (e con essa della macchina pubblica, specie nel risvolto dei relativi conti) davanti a ogni interesse corporativo, ottenendo dapprima la disponibilità della popolazione a seguirlo e poi raccogliendo i successi nelle scorse settimane. Probabilmente questa è la grande differenza fra la mentalità anglosassone e quella continentale, specie sulla sponda mediterranea. Ma d'altra parte questa differenza non è solo un vantaggio per la Gran Bretagna, perché si fa sentire anche in termini di sensibili spinte centrifughe dall'EMU.
Comunque sia, la situazione congiunturale con la quale Cameron si è presentato alle elezioni è davvero molto positiva. La variazione del PIL britannico (Figura 1), dopo il crollo del -4,3% del 2009, ha registrato aumenti annui anche superiori al 2,5%, sostenuti soprattutto dalla veemente crescita del settore dei servizi specie finanziari. L'elemento cardine, nell'ottica del "rischio Brexit" è chiaramente evidenziato, anche nel grafico, dallo "spread" che l'economia britannica esprime rispetto a quella dell'EMU (Unione Monetaria Europea) a partire dal 2012. Il confronto va coerentemente effettuato con le statistiche EMU, perché la Gran Bretagna non fa parte dell'Eurozona e l'eventuale concretizzazione di Brexit avverrebbe nei confronti dell'EMU. Tornando al PIL UK, per il prossimo biennio si prevede una leggera attenuazione della crescita nel 2015, cui dovrebbe però seguire una nuova accelerazione a ridosso del +3% nel 2016.


L'andamento dell'indicatore economico generale, appunto il PIL, probabilmente rende felici gli economisti e le imprese, ma le vere fondamenta del successo elettorale di Cameron si trovano nella favorevole dinamica del mercato del lavoro. Il tasso di disoccupazione (Figura 2), balzato all'8,3% nel '09, è poi sceso fin sotto al 6% e viene stimato a cavallo del 5,5% nel biennio '15-'16. Non c'è "storia" rispetto al pari indicatore EMU, salito a punte dell'11% e atteso a una moderatissima riduzione. Ma il trend britannico non è "un regalo degli dei": si tratta invece della combinazione fra varo di adeguate riforme governative e l'accettazione delle stesse da parte dei cittadini. Gli economisti calcolano che, dal picco della crisi in poi, sono stati creati 1,8 milioni di posti di lavoro, grazie ad una sistematica politica di spostamento dell'occupazione dal settore pubblico a quello privato e al varo di programmi di sensibile flessibilità del lavoro. Il tutto ha prodotto effetti positivi grazie, appunto, allo spirito civico degli inglesi. I contratti a zero ore, senza alcuna garanzia né di impiego né di retribuzione a tutti i costi, sono stati giudicati dalla popolazione preferibili alla disoccupazione ingovernabile, specie a livello giovanile, che invece appesantisce le economie continentali.
Si è già accennato che la grande spinta alla ripresa britannica deriva dal settore dei servizi, in particolare finanziari (la City è forse il principale centro finanziario del pianeta e si situa davanti ad altre realtà come Wall Street e Hong Kong) e ciò viene confermato dall'andamento della produzione industriale (Figura 3): seppur in recupero dai minini del '09, la crescita del settore non esprime ritmi vertiginosi di crescita e si rivela più o meno in linea con il pari trend dell'EMU. Uno dei grandi punti interrogativi britannici si incentra proprio sulla possibile evoluzione del settore industriale: poiché la ripresa congiunturale degli anni scorsi è principalmente dovuta al settore dei servizi, ora gli analisti attendono di verificare quale politica industriale saprà varare l'esecutivo, a maggior ragione se la City dovesse (al seguito dell'effettiva concretizzazione di Brexit) perdere il ruolo di polo finanziario dell'intera Europa.

L'inflazione (Figura 4) ha evidentemente risentito di tensioni (4,5% nel 2010) connesse all'evoluzione congiunturale. Successivamente è stata attirata nel vortice della deflazione mondiale di questi ultimi mesi, ma dovrebbe riportarsi nell'area 1,5%-2% già nel 2016, mantenendosi anche in questo caso in linea con il corrispondente indicatore EMU.
Complessivamente molto positiva anche la fotografia dei conti pubblici. Il rapporto Deficit-PIL (Figura 5) si è appesantito fino all'11% nel picco della recessione, ma si sta riavvicinando al 2%. Il trend del pari indicatore EMU si rivela, in termini strettamente matematici, più "virtuoso", ma ciò deriva dalla politica di austerity adottata negli anni scorsi da molti paesi continentali (specie di area euro) e in ogni caso la Gran Bretagna ha saputo, nel picco della crisi, approfittare dell'ampliamento del deficit per far ripartire più efficacemente l'economia. Conclusa la fase "espansiva", la riduzione del deficit britannico negli ultimi anni è avvenuta grazie a profondi tagli alla spesa pubblica (ridotta, dal 2010, di circa 5 punti percentuali del PIL), accompagnata, però, anche da alleggerimenti fiscali.
Il rapporto Debito-PIL britannico (Figura 6), che al momento è ancora condizionato dall'onda lunga del ricorso all'indebitamento negli anni recessivi, è però stimato in sensibile riduzione nel 2016 (al 75%), mentre il corrispondente indicatore EMU (le cui statistiche iniziano solo dal 2006) dovrebbe rimaner attestato su livelli decisamente superiori (circa l'85%). Sul generale tema dei conti pubblici, restano, anche per la Gran Bretagna, non poche incognite: la spending review non è terminata e gli analisti iniziano ad avanzare l'ipotesi che i prossimi tagli potrebbero essere pesantemente percepiti dalla popolazione.
A parte queste incognite future, l'attuale sensazione è che l'opinione pubblica britannica attraversi una fase in cui teme di dover condividere i premi per i suoi sacrifici con l'inarrestabile propensione agli sprechi dell'Europa continentale. Ecco su cosa si basano le spinte centrifughe della popolazione e il Premier, che già ragiona in termini di mantenimento/accrescimento del consenso, sta dando l'idea di voler cavalcare utilitaristicamente questa onda di pensiero.

Tuttavia vi sono non poche resistenze interne all'ipotesi Brexit, sintetizzabili in due voci essenziali: l'intero settore dei servizi finanziari e i Nazionalisti Scozzesi. La City teme di perdere il ruolo di catalizzatore finanziario dell'intera Europa (infatti gran parte delle transazioni, anche di obbligazioni governative continentali, transitano per i suoi terminali), mentre gli Scottish si rivelano fortemente europeisti più che altro in antagonismo al Governo centrale di Londra. In pratica Edimburgo non accetterebbe mai la vittoria dei "Si" ad un referendum deciso e concretizzato da Londra e risponderebbe immediatamente con il distacco definitivo dall'Inghilterra. È una bella "gatta da pelare" per Cameron, che infatti ha già cercato di blandire gli scozzesi, annunciando per il prossimo futuro possibili autonomie legislative e forse anche parlamentari. Ma un modello "federale" dei rapporti fra Londra ed Edimburgo non pare ancora sull'uscio di casa, perché alimenterebbe immediatamente pari richieste dei gallesi e dei nord-irlandesi, mandando in crisi il nocciolo duro dei cittadini inglesi, che si è recentemente dimostrato sostenitore dei Tory.
Insomma Cameron ha davanti a sé un sentiero stretto e tortuoso. D'altra parte non è neppure ben chiaro se nella sua attuale volontà referendaria il Premier sia sincero o stia bluffando. Infatti, l'uscita dall'EMU non è così vantaggiosa, specie in termini economici, neppure per Londra. Sembra che si tratti più di un puntiglio di tipo giuridico-istituzionale: Londra non ama l'ipotesi definitiva di dover limitarsi a recepire norme decise "altrove" (Bruxelles, cioè Commissione Europea, o Francoforte, cioè BCE, o in un domani Strasburgo, cioè l'eventuale Parlamento unico europeo). Non è cosa da poco e si scontra ovviamente con l'orgoglio di chi, storicamente, ha dominato il mondo e ha portato il suo senso civico, le sue infrastrutture e le sue leggi dove resistono ancora oggi (vedi l'India, per fare un esempio).
Certo neppure i burocrati della Commissione Europea sono esenti da colpe nel rapporto con la Gran Bretagna, perché hano sempre dato per scontato che il processo di convergenza (non solo economico-finanziaria, ma soprattutto giuridica e legislativa) sia un "valore" che ha la preminenza su ogni altra volontà.

È evidente che la partita è solo agli inizi e che nei due anni che ci separano dall'eventuale referendum, si assisterà a diverse fasi, alcune di avvicinamento, altre di allontanamento, il tutto alla ricerca della massimizzazione del tornaconto. Cameron sa che alla fin fine non può sfuggire all'integrazione (pena l'isolamento, specie a danno della City), ma cercherà di vendersi al prezzo più alto.
Il rischio isolamento è infatti un danno troppo elevato per la Gran Bretagna e lo aveva capito già Margareth Thatcher, al momento del referendum del 1975 (quando Londra aderì all'EMU, pur mantenendo alcune opzioni di non coinvolgimento, cone quella di non adottare l'euro al seguito del Trattato di Maatricht). Infatti la Lady di Ferrò affermò: "Noi siamo indiscutibilmente parte dell'Europa e nessuno potrà mai spingerci fuori da essa, perché l'Europa è dove noi siamo adesso, ma anche dove noi siamo sempre stati".