Non c’è pace per il continente latino-americano. Il Covid-19 è giunto, come un subdolo Maramaldo, a infliggere un colpo quasi mortale a un tessuto socioeconomico già fortemente degradato, che ancora faticava a recuperare gli effetti della crisi economico-finanziaria del 2008, causando finora circa 1,5 milioni di vittime e oltre 30 milioni di contagiati (rispettivamente il 37 e il 16 per cento del totale mondiale).
Tra le conseguenze di fatto inevitabili vi sono state il crollo del Pil continentale (-7,7% nel 2020 per i 33 paesi centro-meridionali, il dato regionale peggiore a livello globale), che ha prodotto la più grave recessione da oltre un secolo, e i devastanti effetti a livello sociale, di cui parleremo tra poco. Il profondo malessere si è anche tradotto in diffuse tensioni politiche, spesso sfociate in vere e proprie rivolte di piazza che hanno interessato soprattutto Cile, Perù, Colombia, Bolivia e, per la prima volta da un trentennio, anche Cuba. Il rischio, molto concreto, è che il continente sia dunque destinato a vivere un’ennesima “dècada perdida”.
Il ribaltamento politico
Il segnale più evidente di questa incertezza e confusione, in un biennio (2019 e 2021) di elezioni politiche e presidenziali pressoché generalizzate, è il ribaltamento di quasi tutti i governi in carica. Là ove era al potere la sinistra (Ecuador) si è affermato un candidato (Guillermo Lasso) fortemente conservatore e integralista cattolico. Risultato analogo si è avuto in Messico, dove il partito “Morena” del presidente López Obrador in giugno ha perduto piuttosto nettamente le elezioni parlamentari. Invece, dov’erano in corso esperimenti politici liberistici (Bolivia, Argentina, Perù, Cile) sono risultate vincenti le sinistre. Ulteriore segnale di frammentazione, le vittorie elettorali spesso sono state conseguite con margini esigui, cosa che ha alimentato le immancabili accuse di brogli e acuito i contrasti politici in Paesi tradizionalmente spaccati in schieramenti radicalmente contrapposti.
I bilanci in crisi
I vecchi incubi continentali della seconda metà del XX secolo (condensati nella triade composta da alto debito pubblico, inflazione spesso fuori controllo e diffusi regimi dittatoriali) sembrano profilarsi nuovamente minacciosi, anche se in forme aggiornate. La crisi economica legata alla pandemia sta causando una raffica di aumenti dei prezzi, specie per i prodotti energetici e quelli alimentari: per questi ultimi dal marzo 2020 è stato registrato un aumento del 56% in Argentina e del 17% in Brasile. Ciò ha alimentato un generale impoverimento, mandando nel contempo in crisi i bilanci statali: la via dell’indebitamento appare dunque nuovamente spalancata, tanto che, nei primi nove mesi del 2020, la quota del debito pubblico sul Pil è salita dal 46 al 53,4 per cento.
Pugno forte?
Questo implica la necessità, prima o poi, di applicare politiche di austerità finanziaria, tuttora le preferite dal Fondo Monetario Internazionale, che soltanto regimi “forti” possono sostenere per periodi prolungati: da qui la via spalancata al ritorno di dittature di ogni colore. Un’avvisaglia in tal senso è costituita dalla crescente presenza di militari in posti-chiave delle amministrazioni in Bolivia, Brasile, Uruguay e Venezuela, anticamera (forse) di un’assunzione diretta del potere. Il clima di sfiducia che circonda il continente è confermato dall’andamento degli investimenti esteri, costantemente scesi dai 215 miliardi di dollari del 2012 ai 164 del 2019, per poi crollare a 88 miliardi nel 2020.
C’è rimedio a questo circolo vizioso?
Forse, ma con il rischio di conseguenze diversamente nefaste. L’allentamento delle politiche di limitazione della pandemia (peraltro spesso inefficaci, là ove adottate, o addirittura inesistenti, come nel caso del Brasile, dove il negazionismo e l’indifferenza della presidenza Bolsonaro hanno prodotto finora il non invidiabile primato di 19,3 milioni di contagiati e oltre 540mila vittime), intervenuto nei mesi scorsi, sta indubbiamente riportando un certo sviluppo economico (+3,7% la media delle stime per il 2021della Banca Mondiale e del Cepal), la Commissione economica continentale dell’Onu), che potrebbe anche rafforzarsi grazie all’attuale, vigoroso recupero dei corsi delle materie prime, di cui l’America latina resta un forte produttore. Questa crescita potrebbe però essere pagata con una ripresa delle infezioni (segnali sono giunti da vari Paesi come Colombia, Perù, Paraguay, Argentina e Messico, con la parziale eccezione del Cile, che hanno intrapreso parziali campagne di profilassi con il vaccino cinese Sinovac, risultato scarsamente efficace rispetto ai corrispondenti prodotti occidentali) e, quindi, con un nuovo aumento della povertà e dell’iniqua distribuzione dei redditi.
Il futuro difficile
Le prospettive in materia sono preoccupanti. Secondo l’analisi di Euler Hermes, che ha esaminato i dati dei sei maggiori paesi continentali, a causa dell’ulteriore riduzione dell’accessibilità economica dei prodotti di base la linea della povertà potrebbe presto inglobare altri 80 milioni di persone (il 18% della popolazione il cui reddito oscilla tra 2 e 5,5 dollari al giorno, con una quota che varia dall’8,4% dell’Argentina al 13,4% del Cile, dal 21,1% del Messico al 23,3% della Colombia). Analoghi timori esprime la Fao. In Argentina - dove, in base ai dati dell’istituto pubblico di statistica Indec, nel secondo semestre 2020 versava già in stato di povertà il 42% della popolazione, con una punta del 57,7% per i ragazzi inferiori a14 anni - potrebbe significare che un abitante su due si troverà in stato d’indigenza. Questo dato evoca il livello del 57,5% raggiunto nell’ottobre 2002, al culmine della crisi finanziaria più grave mai attraversata dal paese e, com’è comprensibile, suscita profonde preoccupazioni.
I riflessi internazionali
Accanto a questa dimensione “interna” delle difficoltà latino-americane occorre però considerare gli inevitabili riflessi internazionali. La crescente debolezza complessiva della regione richiama l’interesse dei principali attori esterni. Cina in testa, com’è ovvio, ma finora, stranamente, Stati Uniti esclusi. Se Donald Trump si era occupato del proprio “cortile di casa” soltanto per cercare di fermare l’eterno flusso negli States d’immigrati provenienti dal sud, era logico attendersi una vigorosa ripresa d’interesse di Joe Biden, in linea con l’attivismo mostrato dalle presidenze di Barack Obama, specie la seconda, culminato nella ripresa delle relazioni con Cuba e nel congelamento dell’annosa crisi venezuelana, oltre che con un flusso costante di aiuti e investimenti.
Invece, a sei mesi esatti dal suo insediamento, Biden non ha ancora formulato una linea politica d’azione per l’America Latina, salvo mandare messaggi sempre più espliciti (anche attraverso la sua vice Kamala Harris) che la politica di blocco dell’immigrazione non cambia e assistere inerte alla penetrazione della Cina. Quest’ultima è sempre più attiva sul fronte economico (tanto da aver accumulato investimenti nella regione per complessivi 113,4 miliardi di dollari nel 2020) e, se non è ancora in grado di scalzare l’influenza statunitense, ha comunque raggiunto posizioni di notevole forza, specie in campo energetico, minerario e delle materie prime alimentari.
La variabile Biden
Ma è sul fronte strettamente politico che Biden è chiamato ad agire con la massima celerità possibile. Il continente sta generando crisi sempre nuove (Haiti, con l’oscuro attentato in cui il presidente Jovenel Moise è stato ucciso all’inizio del mese da un commando di mercenari colombiani addestrati in passato dall’ente anti-narcotici americano, è un esempio eloquente dell’instabilità endemica della regione), mentre altre, come quella del Venezuela (il paese più disastrato al mondo), si trascinano incancrenite da anni senza un’apparente soluzione in vista, dopo la fallita creazione di un fronte politico di opposizione filo-americano.
Se gli Usa ritengono ancora valida la “dottrina Monroe”, che sta per compiere due secoli, Biden deve al più presto arginare le ambizioni cinesi, riprendendo in mano l’intero dossier latino-americano. Ne va della credibilità globale di Washington.
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