Dal primo gennaio di quest'anno la Croazia è il ventesimo Paese che ha deciso di entrare nel club dell’euro, sostituendo la propria valuta con la moneta unica europea. La scelta della Croazia segue quella delle altre new entry: Lituania (2015), Lettonia (2014), Estonia (2011), Slovacchia (2009), Malta e Cipro (2008), Slovenia (2007). Ci sono ormai quasi 340 milioni di cittadini europei che si identificano nella moneta unica.

Se c'è ancora una lista di attesa di paesi che cercano di rispettare i criteri di ammissione all’eurozona, qualche motivo valido ci sarà.

Che cosa guadagna l'economia della Croazia?

Vediamo qual è lo scenario che si prospetta per l'economia croata, evidenziando i vantaggi e gli svantaggi dell’appartenenza all’euro per la Croazia, un paese di quasi 4 milioni di abitanti, con un Pil che dipende in gran parte dal turismo e una configurazione geografica di cerniera tra est e ovest.

Come si può vedere nella tabella qui sotto, la Croazia ha i conti in regola per la partecipazione alla moneta unica e per un solido ancoraggio alle società occidentali. Nel primo ambito, emerge il “basso” indebitamento pubblico, con il rapporto tra debito e Pil pari al 78% e nettamente inferiore alla media dell’Eurozona (95%). Le statistiche sociali sono ben rappresentate dal basso livello di abbandono scolastico, che si accompagna agli indicatori su disoccupazione, povertà, popolazione giovanile che sono nella media dell’euro-zona.

Un Pil procapite ancora molto basso, circa la metà di quello italiano, conferma che il rafforzamento del legame con la moneta unica è visto con la speranza della crescita, che verrà sicuramente supportata dai forti legami commerciali che la Croazia ha con l’Europa, dove sono diretti i due terzi delle esportazioni e da cui provengono i tre quarti delle importazioni. Rapporti commerciali nettamente più alti della media e del caso italiano, che saranno favoriti dalla trasparenza dei prezzi in euro.

Il confronto
Il confronto
Fonte: elaborazione Mondo Economico su dati Eurostat 2023

La scelta del governo croato verso il rafforzamento del legame con la moneta europea rappresenta una sfida politica che merita il supporto degli altri Paesi partner, in quanto anche in Croazia, come in Italia e altrove nel Vecchio Continente, i partiti populisti contrari all’Unione Europea evidenziano soprattutto i costi, economici e sociali, che l’appartenenza alla moneta unica comporta, senza però sottolinearne i corrispondenti benefici.

Esaminare i costi e i benefici che la Croazia ha dall’ingresso nell’euro è un esercizio che può essere utile anche per il lettore italiano, soprattutto a distanza di 23 anni dal gennaio 1999, la data del nostro ingresso nel club dell’euro.

I costi di partecipazione all'Euro Club

Il costo più importante è sicuramente la perdita dell’autonomia monetaria da parte della banca nazionale, che non sceglie più il tasso di interesse e la quantità di moneta ideali alle esigenze dell’economia locale. Il costo deriva dall’ipotesi che ci siano elevate differenze strutturali nelle finanze pubbliche dei paesi e che il tasso di interesse della Bce, pur se valido per la “media” dei paesi europei, non è invece l’ideale per i singoli casi nazionali. In realtà, la critica non tiene conto che il rispetto dei criteri di ammissione ha avvicinato notevolmente le finanze pubbliche dei paesi che entrano nella moneta unica, e che la stessa appartenenza all’Unione Europea ha favorito una notevole convergenza dei cicli congiunturali dei paesi partner.

Mentre negli anni ’80 e ’90 del secolo scorso le congiunture nazionali erano profondamente diverse, con paesi che necessitavano di politiche monetarie restrittive a fianco di paesi che perseguivano politiche monetarie espansive, oggi notiamo invece una notevole convergenza, che è compatibile con l’uso di una unica moneta e di un’unica politica monetaria (come affermato dalla teoria sulle aree valutarie ottimali). L’integrazione economica ha plasmato, lentamente, i paesi partner, favorendone la convergenza verso modelli economico-sociali più simili.

 

La nazionale della Croazia è arrivata terza ai Mondiali del Qatar: nella "finalina" del 17 dicembre 2022 ha battuto il Marocco per 2 a 1.

Un altro importante “costo” che viene enfatizzato dai critici della moneta unica riguarda la possibilità di svalutare la moneta per ottenere vantaggi in termini di competitività di prezzo sui mercati internazionali. Anche in questo caso, la letteratura economica è fortemente convinta che si tratti di un costo molto limitato, stante il circolo perverso creato dalla svalutazione, che migliora temporaneamente le esportazioni per ripercuotersi subito dopo con maggiori prezzi delle importazioni, che generano un aumento dei costi di produzione e quindi l’azzeramento dei precedenti vantaggi all’export. È quanto successo con le svalutazioni competitive della lira, che non hanno mai bloccato la progressiva perdita di competitività causata dall’inflazione nazionale, ai tempi favorita anche dalla “scala mobile”.

Solo in un caso, ormai storico, la svalutazione della lira ha generato vantaggi consistenti e di lungo periodo: con la crisi valutaria del 1992 le esportazioni guadagnano notevole competitività di prezzo che non si riduce successivamente grazie all’accordo sul costo del lavoro di luglio 1993, quando il governo (con Ciampi, presidente del consiglio, e Giugni, ministro del lavoro) e le parti sociali (Trentin, D’Antoni e Larizza) definiscono i futuri aumenti salariali con riferimento all’inflazione programmata dal governo e non con riferimento all’inflazione subita dai lavoratori. La temporanea perdita di potere d’acquisto reale dei salariati mantiene alta la competitività delle nostre imprese e favorisce il percorso di avvicinamento all’euro-zona.

I vantaggi in arrivo 

Vediamo ora i vantaggi per l’economia croata, che sono molto simili a quelli goduti dai primi paesi dell'Unione monetaria nel gennaio 1999: l'impatto più importante e più positivo è sicuramente quello sui tassi di interesse del debito pubblico. Il tasso di interesse che un risparmiatore vuole ottenere da un titolo di debito sovrano, quotato sulle piazze internazionali, dipende soprattutto da tre fattori importanti.

Il primo è il tasso di interesse “base” del mercato internazionale, che deriva dalla congiuntura macroeconomica e monetaria: una variabile esogena che mostra periodi con tassi (relativamente) bassi che si alternano a periodi con tassi (relativamente) alti.

Il secondo fattore è il premio per il rischio debitore, che si aggiunge al tasso base per compensare la probabilità che nella durata del titolo il paese vada in default e il creditore non venga rimborsato. È già successo più volte nella storia della finanza internazionale, come sanno i risparmiatori italiani che avevano investito in bond argentini. Si tratta di una variabile che riflette la sostenibilità futura dell'attuale debito pubblico e che dovrebbe essere indicata dalle società di rating (il condizionale riflette il conflitto di interessi di queste società). Per esempio, il rischio debitore incide pochissimo sul tasso del debito sovrano tedesco, mentre fa aumentare significativamente i tassi sui titoli greci e italiani (e la differenza tra il primo e i secondi la vediamo nella quotazione dello spread).

La terza componente riguarda il rischio valuta, e cioè la probabilità che nella durata del titolo il paese svaluti la moneta. È ciò che capitava agli investitori tedeschi che compravano Bot negli anni ’80, quando la lira si svalutava periodicamente per tentare di compensare la perdita di competitività causata dall’inflazione: il risparmiatore tedesco alla scadenza del titolo otteneva un ammontare di marchi inferiore a quanto investito inizialmente. Dal primo gennaio 2022 questa componente negativa non esiste più per la kuna croata, e per questo motivo il tasso sul debito croato si riduce automaticamente grazie all’ingresso nel club dell’euro.

In realtà, il rischio valuta non esiste più dal luglio 2022, quando la Croazia ha superato l’esame di ammissione alla moneta unica e il rapporto di cambio è stato fissato, irrevocabilmente, a 7,5345 kune per euro. Il ricordo va al primo maggio 1998, quando Ciampi, ministro del tesoro, confermò che l’Italia rispettava i criteri di Maastricht, e il cambio fu fissato irrevocabilmente a 1936,27 lire per euro.

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Oltre all’eliminazione del rischio valuta, merita precisare che anche il rischio debitore si riduce con la scelta della moneta unica, grazie alla migliore reputazione del paese sui mercati finanziari. L’unione dei due vantaggi determina una forte riduzione dei tassi di interesse, come mostra il grafico sui tassi sovrani dei paesi “euro-storici” dal 1993 al 2011.

L’ingresso nel club dell'euro consentirà quindi al governo croato di spostare risorse economiche dal pagamento degli interessi sul debito pubblico all'investimento in beni pubblici per il benessere dei cittadini.

Da vantaggi a miglioramenti strutturali

Del resto, è lo stesso vantaggio che i paesi euro-storici hanno avuto il primo gennaio 1999, soprattutto quelli che erano particolarmente deboli dal punto di vista della finanza pubblica, come l’Italia che ha goduto di bassi spread dal 1999 fino alla crisi finanziaria dei mutui subprime statunitensi del 2008.

Purtroppo, il nostro Paese non è riuscito a trasformare questi vantaggi temporanei in miglioramenti strutturali della sua posizione finanziaria e della sua crescita economica. Perché i risparmi del minor onere per il debito non sono stati trasformati in beni pubblici che potevano aumentare la produttività dei fattori, quali gli investimenti in formazione, in ricerca e nelle infrastrutture, ma bensì sono stati utilizzati per aumentare la spesa pubblica corrente e la domanda aggregata, inaugurando una lunga stagione di bonus e di sussidi a favore di alcune categorie di elettori.