«Sono ottimista, ma vigile. Perché il virus sta seguendo l'andamento previsto, la sua virulenza è in calo, però con qualche sorpresa. Per esempio quella di circolare tutto l'anno. Questo sarà ancora un inverno di transizione». Giovanni Di Perri, direttore del dipartimento malattie infettive dell'Amedeo Savoia e della scuola di specializzazione dell'Università di Torino, è da quasi tre anni in trincea contro l'epidemia del secolo. Era il 20 febbraio 2020 quando veniva accertato il primo caso di Covid in Italia. Da allora dieci lunghi mesi vissuti in emergenza assoluta a Torino come a Palermo, a Milano come a Roma, quasi impotenti di fronte a un virus che colpiva spesso in maniera letale. Come testimonia la fila dei camion dell'Esercito carichi di bare che lascia l'ospedale di Bergamo, forse la foto simbolo dell'epidemia in Italia. Poi il 22 dicembre, dieci mesi dopo il primo caso, il via libera dell'Aifa al vaccino, l'inizio di un'altra battaglia. Vinta. Di Perri ha vissuto questi momenti forse in uno dei posti peggiori dove essere: tra il reparto di terapia intensiva, in mezzo a pazienti di tutte le età intubati, con un disperato bisogno di una boccata d'ossigeno e i laboratori dove si studiava questo killer sotto le forme di un virus. L'interlocutore giusto dunque per fare il punto tre anni dopo, in verità un secolo fa, tanto appaiono lontani quei giorni per chi non è stato toccato da un lutto.
Professore, l'attualità sembra però riportarci indietro nel tempo, con la sindrome cinese che si riaffaccia, proprio come tre anni fa. Cosa risponde?
«La decisione di controllare gli arrivi dalla Cina è saggia. Dopo aver inseguito per due anni l'obiettivo Zero Covid, ricorrendo a lockdown pesanti e quarantene in Covid center per far circolare poco il virus, il governo di Pechino ha cambiato registro puntando sull'immunità di gregge e considerato che i loro vaccini fatti con il virus ucciso sono scadenti si rischia un mezzo disastro. Ecco perché è bene fare i tamponi e sequenziare il virus. Tenuto anche conto che le frontiere sono spesso un colabrodo. In generale, dobbiamo vigilare su nuove varianti del virus importate dall'estero: quelle presenti in Italia difficilmente riacquisteranno virulenza».
Anche l'America, l'altra grande superpotenza economica, però, sembra rivivere un incubo, sotto la spinta della variante Kraken, "cugina" della più conosciuta Gryphon. I contagi sono alle stelle. Perché?
«L'America sta soffrendo per una ragione semplice: è un Paese assai meno immunizzato dell'Italia che, in assoluto, è tra i più coperti al mondo».
Quindi lei resta convinto che la malattia sia cambiata?
«Si, la malattia è cambiata anche se il virus è sempre della stessa specie, pur nelle diverse varianti con cui abbiamo dovuto fare i conti. A Natale di due anni fa per esempio in Italia prevaleva ancora la variante Delta, poi è arrivata Omicron e ha fatto piazza pulita per la facilità che aveva nel diffondersi. Nel 2022 i contagi sono stati cinque volte di più rispetto al periodo precedente, ma i vaccini hanno funzionato e ne hanno ridimensionato l'impatto. E, soprattutto, Omicron pur essendo più contagiosa è quindici volte meno pericolosa e aggressiva di Delta. Per esempio all'inizio per i ricoverati con Covid si ricorreva quasi sempre alla ventilazione assistita o all'intubazione, in quanto la forma clinica dominante era rappresentata dalla polmonite interstiziale. Ora accade in un caso su venti, ovvero un ricoverato con Covid su venti è affetto da questa forma di polmonite, quasi sempre di gravità ridotta. Questo proprio perché la variante del virus è meno patogena e aggressiva e perché i vaccini proteggono. E in Europa c'è stata un'alta adesione alla campagna di immunizzazione. In Italia, in particolare».
Ecco, non ritiene che adesso nel nostro Paese ci sia una fase di stanchezza sul fronte dei vaccini? Almeno questo appare leggendo queste percentuali: 84% degli italiani ha ricevuto due dosi di vaccino, il 70% per cento la terza dose, il 30% la quarta. Che cosa replica?
«Lo scarto può apparire grande ma tenga conto che tanta gente ha contratto il virus e l'immunizzazione che si ricava è altrettanto efficace quanto quella del vaccino. Io, per esempio, in agosto sono stato contagiato mentre ero in vacanza. Ora avrei dovuto fare la quarta dose, ma rimando perché l'immunizzazione spontanea è ancora efficace. E sono davvero in tanti gli autoimmunizzati. Una prova? Quando vado a seminari e convegni ho l'abitudine di fare un rapido test in sala per chiedere quanti non abbiamo fatto il Covid. La percentuale si aggira sempre tra il 5 e il 6 per cento»
Possiamo dunque dire che il Covid può essere declassato a un'influenza?
«Un'influenza febbrile fastidiosissima. Ormai lo annovero tra i virus delle vie respiratorie che ci affliggono soprattutto in alcuni periodi dell'anno, con la differenza che questo circola sempre e solo in estate appare meno efficace, ma comunque capace di colpire. Anche la gente ormai ha un approccio diverso verso il Covid: va in farmacia o al supermercato, compra il test fai da te e spesso gestisce il contagio senza neanche comunicarlo. Detto questo, occorre però rimanere vigili quando attacca i soggetti cosiddetti fragili: chi soffre di più patologie, i diabetici, gli obesi. E, soprattutto, gli anziani, Non dimentichiamoci che noi siamo il quinto Paese più vecchio al mondo. La nostra età mediana è 47 anni, gli Stati Uniti sono a 38».
Quanto sono utili i farmaci antivirali?
«La terapia precoce del Covid si sta rivelando un'arma efficace soprattutto per evitare il ricovero. Certo conta la tempestività. Bisogna somministrare i farmaci antivirali o gli anticorpi monoclonali entro cinque giorni dal tampone positivo. Il rischio di finire in ospedale si riduce fino all'80 per cento perché si sono dimostrati molto efficaci nel ridurre il rischio di progressione della malattia».
Pero questo richiede l'aiuto dei medici di base. Che vivono un momento difficile: pochi e stracarichi di lavoro. Che ne pensa?
«C'è anche il problema che molti medici di base non conoscono a fondo la malattia. In più negli ultimi vent'anni la politica ha fatto davvero tanti danni alla sanità, togliendole posti letto e personale e oggi ci troviamo con un apparato azzoppato che solo grazie all'abnegazione di tutti è riuscito a superare un'emergenza come quella del Covid».
E quale resta la miglior difesa?
«Il vaccino. Ogni anno, dovremo immunizzarci. Proprio come accade per l'influenza o il fuoco di Sant'Antonio».
La mascherina la consiglia ancora?
«La mascherina, ed in particolare voglio riferirmi alla Ffp2, è uno strumento ancora importantissimo per i soggetti vulnerabili a vario titolo, ovvero non solo per chi rientra nella tipologia di malato descritta in quest'ultimo anno (anziano con pluripatologie croniche) ma anche e soprattutto per i soggetti neoplastici o comunque affetti da patologie immunosoppressive o bisognosi di terapie immunosoppressive. Una precauzione che si estende a chi vive con loro, in una strategia di schermo familiare contro l'infezione».
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