Pubblichiamo un ampio stralcio del capitolo introduttivo del volume curato dall'economista Mario Deaglio - «Dall'illusione dell'abbondanza all'economia dell'abbastanza» (Guerini e Associati, pagg. 184, euro 19) - che è stato presentato al Festival internazionale dell'economia di Torino nella giornata inaugurale del primo giugno. All'auditorium del grattacielo Intesa Sanpaolo un confronto approfondito cui hanno partecipato il presidente di Intesa Sanpaolo Gian Maria Gros Pietro, la politologa Marta Dassù e l'economista Giovanna Nicodano. 

 

All’inizio del secolo, ossia ventitré anni fa, era molto diffusa nel mondo la convinzione che la globalizzazione avrebbe potuto risolvere pressoché tutti i problemi economico-politici del pianeta: sarebbe stato sufficiente rendere sempre più liberi i mercati, a cominciare da quelli finanziari. Il «giro mondiale dei soldi» sarebbe stato alla base del «giro mondiale delle merci»: ogni giorno, per circa venti ore su ventiquattro, in qualche parte del pianeta ci sono mercati finanziari aperti dove è possibile non solo comprare e vendere titoli di debito di ogni tipo – a cominciare da quelli pubblici –, valute e materie prime, ma anche diventare soci, con somme piccole o grandi (o smettere di esserlo), di decine di migliaia di imprese, molte delle quali impegnate a realizzare progetti produttivi con tecnologie nuove. Sembrava la strada maestra verso maggiore produzione, maggiore occupazione e un miglior tenore di vita per tutti. Cominciarono a convincersene anche i cinesi e, in parte, i russi.

I miglioramenti dell’inizio

È fuor di dubbio che la globalizzazione, specialmente all’inizio, abbia portato straordinari miglioramenti materiali a tutti i paesi partecipanti a questo «grande gioco»: nei primi quindici-vent’anni, ossia all’incirca tra gli anni Ottanta e il Duemila, i lavoratori impegnati nel sistema economico globale aumentarono di circa 800 milioni (prevalentemente in Asia, a cominciare dalla Cina) e videro, nella maggior parte dei casi, il proprio potere d’acquisto aumentare fortemente. Allo stesso tempo imponenti aumenti di reddito andavano anche all’élite dei giovani tecnici impegnati a inventare nuovi prodotti e a organizzarne la produzione. Nei paesi avanzati accelerò la tendenza alla concentrazione di ricchezza e reddito nei ceti più abbienti.

L'economista Mario Deaglio durante il suo appassionato intervento sulla globalizzazione al Festival internazionale dell'economia di Torino

All’incirca a partire dal 1980, quando scomparvero il Muro di Berlino e l’assetto bipolare del mondo, la «nostra» globalizzazione (altre, infatti, ce ne erano state in passato) ha portato a un eccezionale mutamento del modo di studiare, lavorare, vivere, sull’onda dell’adozione del dollaro come moneta globale. Naturalmente gli Stati Uniti, al centro economico-politico del sistema, ne beneficiarono fortemente, pur commettendo molti errori di politica estera (Iraq, Afghanistan e altri). Quello americano era un «potere soffice», come teorizzò il politologo Joseph Nye, liberamente, e talora entusiasticamente, accettato dal resto del mondo. Un altro scienziato sociale americano, Francis Fukuyama, aveva sostenuto poco prima che «la Storia», intesa come successione di lotte cruente, era finita. Dalla teoria alla pratica: negli stessi anni l’economista John Williamson introdusse il concetto di Washington Consensus per sintetizzare i principi finanziari ed economici condivisi in quegli anni da Fondo Monetario Internazionale, Banca Mondiale e Tesoro degli Stati Uniti, tre istituzioni con sede a Washington. Si trattava di una «ricetta» per l’America Latina ma estensibile a tutti i paesi in via di sviluppo. Si articolava in dieci punti ma può essere riassunta in tre parole: liberalizzazione, privatizzazione, deregolamentazione. Il mondo pareva avviato su un tragitto facile e comodo verso un fu- turo di pace e di abbondanza. Poi l’incantesimo si è rotto e dal vaso di Pandora la globalizzazione ha cominciato a sfornare mostri.

Il «mutuo vantaggio» è ormai passato

Le prime crepe importanti comparvero nel 2008-2009 con la cosiddetta «Grande Recessione»; poi si aggiunsero malanni di varia natura, dalla pandemia al cambiamento climatico fino alla guerra ucraina. È inoltre emerso un disagio sociale – oltre che economi- co – sempre più profondo, sempre più evidente e sempre più politicamente rilevante.

L'evento
 

Il «mutuo vantaggio» oggi appartiene largamente al passato. I commerci sono sempre meno liberi; tra Russia e Occidente c’è una guerra di sanzioni reciproche e la stessa tendenza si registra anche nei rapporti tra Stati Uniti e Cina. Le «catene globali del valore» risultano sempre più usurate e sempre meno globali. «Una nuova logica distruttiva minaccia la globalizzazione» ha scritto, all’inizio del 2023, The Economist – da quasi due secoli portabandiera di un pragmatico liberalismo mondiale – accennando a una «pericolosa scivolata verso i sussidi, i controlli alle esportazioni e il protezionismo».

L’era «a somma zero»

Viviamo, nel migliore dei casi, sulla soglia di un’era che può essere definita «a somma zero»: sempre più i benefici che un paese ottiene sono il risultato di sottrazioni ad altri paesi. Tutti «giocano a rubamazzetto», un’espressione inglese che fa riferimento al noto gioco di carte in cui, più che accumulare punti, si cerca di portar via con una sola mossa il «mazzo» accumulato dagli altri partecipanti6: tutti i paesi cercano di indurre le imprese a trasferire – spesso nel loro paese d’origine – uffici, fabbriche e centri direzionali chiudendoli anche là dove produrre costa meno. Nel migliore dei casi la crescita del Pil mondiale rallenta e, siccome tutti cercano di produrre in patria, l’incidenza degli scambi internazionali sul Pil mondiale ha smesso di aumentare.

Dopo il 2008, la rotta dell’economia, invece di puntare all’abbondanza e a un gioioso e diffuso benessere, una sorta di paradiso terrestre, ha cominciato a svoltare verso il basso accontentandosi della «sostenibilità», accontentandosi dell’abbastanza.

Corsi e ricorsi

Purtroppo, non è la prima volta che ciò succede: poco più di cent’anni fa, nei primi anni Dieci del Ventesimo secolo, avvenne la stessa cosa. E fu la premessa della Prima guerra mondiale (e della seconda come continuazione della prima), anche se possiamo provare a consolarci con il fatto che la storia non si ripete (quasi) mai. Gli Stati Uniti, pur con un presidente proveniente dal Partito democratico, storicamente contrario ai monopoli, sono al centro di questo nuovo «gioco» e di fatto perseguono politiche che tendono a chiudere le frontiere a gran parte delle merci provenienti dall’estero. Sulle pagine di Foreign Affairs, forse la più nota rivista mondiale di problemi internazionali, il deputato democratico californiano Ro Khanna ha sollecitato pochi mesi fa un «nuovo patriottismo economico» perché gli Stati Uniti ritornino a essere una «superpotenza manifatturiera». Prima di Trump, i presidenti americani favo- rivano invece la diffusione dell’industria manifatturiera nel mondo.

La nuova, aggressiva, politica industriale degli Stati Uniti di Biden, benché nettamente più «educata» nei modi, non si discosta troppo dalla linea di Trump. Sull’onda della guerra ucraina e del confronto Stati Uniti-Cina a proposito di Taiwan, pur rimanendo imponenti i flussi di esportazioni cinesi verso gli Stati Uniti, sono comparsi sintomi chiarissimi di chiusura commerciale.

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La tendenza al ribasso

Tutto ciò contribuisce alla tendenza al ribasso dei commerci mondiali e, dove è possibile, alla sostituzione di alcuni prodotti con altri di fabbricazione domestica, dal costo di produzione più elevato, ma anche con approvvigionamenti più sicuri. Sta avvenendo l’inverso di quanto previsto da Adam Smith due secoli e mezzo fa: allora si pensava che il commercio potesse evitare o fermare le guerre. Ora sembrano essere le guerre il fattore che limita o ferma il commercio.
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Finora i paesi avanzati hanno dimostrato di poter resistere in queste condizioni senza precipitare in una vera crisi economica, ma le prospettive di una crescita priva di limiti e problemi sono andate in soffitta, anche perché assistiamo a profondi cambiamenti culturali che sembrano correggere al ribasso l’entusiasmo per i prodotti elettronici-informatici, come mostrano il licenziamento negli Stati Uniti di oltre 200mila lavoratori di questi settori nell’ultimo trimestre del 2022 e nel primo trimestre del 2023 e l’abbandono o il rinvio di piani commerciali per la diffusione della «realtà virtuale» e del «metaverso» che non ha riscosso l’entusiastico successo previsto.

Si può affermare, in altre parole, che ci sia una ritirata generale sul fronte dell’abbondanza e una tenuta sul fronte dell’«abbastanza». Il futuro si presenta assai incerto e per decifrarlo ci vorrebbe la sfera di cristallo. Gli economisti e gli altri scienziati sociali, però, non la possiedono. Oppure l’hanno dimenticata a casa.