«Migliora la salute degli anziani ma cresce la domanda di cura e assistenza». Titolava così l’ultimo Report Istat di luglio 2021 sulle condizioni di salute della popolazione anziana in Italia. Gli anziani non autosufficienti, con gravi limitazioni motorie, sensoriali o cognitive, sono 3,8 milioni. Rappresentano il 28,4% degli over 65. E al crescere dell’età, la quota di anziani con gravi difficoltà funzionali aumenta progressivamente: tra i 65-74enni sale al 14,6%, raddoppia a 32,5% tra gli anziani di 75-84 anni e quadruplica tra gli ultra ottantacinquenni (63,8%). La spesa pubblica dedicata ha superato nel 2021 quota 21 miliardi. La spesa privata - quanto spendono le famiglie - è impossibile da quantificare ma si stima che superi ampiamente i 10 miliardi. E se è vero che l’Italia è destinata a diventare un Paese sempre più vecchio (la popolazione over 65 rappresenta oggi il 23,2% ed entro il 2050 potrebbe superare il 35%), è evidente che c’è un serio problema da gestire e da risolvere.

Fonte: Le condizioni di salute della popolazione anziana in Italia - Istat

In questa fotografia, che non è fatta solo di numeri ma di persone, dolore, rispetto della dignità umana, diritto all’assistenza, la famiglia resta il pilastro centrale ma è sempre più fragile. Non è più sufficiente. Lo sanno bene le 57 organizzazioni che si sono riunite sotto la voce Patto per un nuovo welfare sulla non autosufficienza che rappresenta gran parte della società civile coinvolta nell’assistenza e nella tutela degli anziani. Una comunità italiana della non autosufficienza che per la prima volta si è unita e, attraverso pressione politica e competenze tecniche, ha permesso dopo anni di silenzio di veder approvata il 21 marzo la legge delega sulla Riforma dell’assistenza agli anziani non autosufficienti. Un voto storico, atteso dalla fine degli anni ’90, che interessa oltre 10 milioni di persone tra anziani, familiari impegnati ad assisterli, operatori professionali coinvolti. È solo l’inizio di un percorso che ha tutte le carte in regola (se finanziato e accompagnato) per rivoluzionare l’assistenza agli anziani non autosufficienti.

Eppure, nonostante la dimensione numerica del target interessato da questa riforma, la sua approvazione non ha fatto rumore, non ha raggiunto l’opinione pubblica. Perché?

«Perché l’invecchiamento della popolazione è facile da raccontare mentre le politiche per la non autosufficienza sono oggettivamente molto difficili da comunicare. Sono complicate. Sono il risultato di un mix di risposte. Così il tema resta sempre poco visibile, escluso dal dibattito politico».

È il pensiero di Cristiano Gori, coordinatore del Patto per un nuovo welfare sulla non autosufficienza e docente al Dipartimento Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università di Trento. Con lui abbiamo approfondito i contenuti della riforma, la sua portata storica e pure le fragilità e le insidie che la attendono per conquistare risorse finanziarie che le permettano di essere attuata e non restare carta bianca.

Iniziamo dalle ragioni che hanno prodotto questo ritardo legislativo. Riforme simili in Europa hanno già compiuto trent’anni: in Austria l’introduzione è del 1993, in Francia del 2002, in Spagna del 2006…

«Le ragioni sono diverse. Innanzitutto scontiamo una pressione culturale: in Italia è implicito che dell’anziano se ne occupi la famiglia. Poi è stato difficile definire il progetto: una riforma nazionale su una materia che è sempre stata a trazione locale. Infine, mentre l’anziano in quanto pensionato ha avuto negli ultimi decenni una tutela di advocacy fortissima, sull’anziano non autosufficiente cominciamo solo ora a muovere i primi passi. Viviamo un problema di rappresentazione. Anche sui media è difficile costruire un profilo pubblico di questa platea che è schiacciata dalla previdenza. In questo senso il Patto rappresenta una novità».

Possiamo affermare che la riforma va attribuita proprio al Patto?

«In genere è difficile capire le influenze dei gruppi di pressione su progetti di questa portata. In questo caso invece è molto facile. A gennaio 2021, nel Pnrr del governo Conte II la riforma non c’era. Noi l’abbiamo chiesta e ci siamo impegnati in una forte campagna. Ad aprile 2021, nel Pnrr di Mario Draghi la riforma era presente. Quindi mi sento di dire che è indiscutibilmente ascrivibile al Patto. E un’ampia parte dei contenuti della legge delega provengono proprio dalla nostra proposta, non dalle commissioni ministeriali. Devo però riconoscere che le istituzioni ci hanno ascoltato, dall’ex ministro Andrea Orlando all’attuale vice ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, Maria Teresa Bellucci. Il governo ha resistito alla tentazione di modificare, smontare la legge di un precedente governo. E questo per l’Italia è già un grande risultato. Poi ha accettato anche i nostri emendamenti. Tutto l’iter è stato costruttivo».

Il Pnrr è stato il vostro “cavallo di troia”…

«Sì, ma pure un’operazione non esente da rischi. Noi ci siamo battuti per inserire la riforma nel Pnrr perché di fronte ad una materia politicamente così debole solo agganciandola allo strumento europeo avevamo la certezza di ottenerla. Era una occasione unica. Ma le riforme del Pnrr non prevedono incrementi di spesa corrente ma solo di spesa straordinaria 2022/2026. È evidente che lo sviluppo di questo settore impatta in tutte le risposte nell’incremento della spesa corrente. Quindi è come se avessimo infilato una riforma, che richiede un sostanzioso incremento di spesa corrente, in un involucro istituzionale che lo vieta. Però questa è stata anche la nostra scommessa. Intanto, ci siamo detti, portiamo a casa la legge. Poi lavoreremo per costruire consenso intorno e per ottenere fondi».

Affrontiamo allora il tema soldi: quanti ne servono?

«Non abbiamo stime aggiornate, ci stiamo lavorando. Siamo comunque nell’ordine di 5/7 miliardi di euro all’anno. Siamo nel campo delle grandi riforme. Pensiamo al Reddito di cittadinanza con i suoi 6 miliardi di incremento oppure all’assegno unico per i figli che ha assorbito 7 miliardi. Ovviamente ai 5/7 miliardi ci si può arrivare anche in più anni. Il governo potrebbe impegnarsi in un percorso di incremento pluriennale».

Quando si parla di incrementi della spesa pubblica viene naturale chiedersi se ci sarà anche un ritorno economico…

«In genere, chi vuole “vendere” una riforma promette una ricaduta economica positiva. Nel nostro caso ci sono almeno due impatti importanti. Il primo è l’abbattimento dell’utilizzo inappropriato di altri servizi pubblici. In primis, ospedali e pronto soccorso. È accaduto a tutti: in assenza di un presidio territoriale importante, quando un anziano cade viene portato in un pronto soccorso. È il classico esempio di uso inappropriato dei servizi sanitari. Il secondo impatto riguarda l’occupazione: questo settore può contribuire alla produzione di nuovi posti di lavoro. Proprio l’Unione Europea ha affermato che i settori che produrranno nuova occupazione nei prossimi anni sono legati ai servizi alla persona di welfare e alla transizione ecologica».

Fonte: Le condizioni di salute della popolazione anziana in Italia - Istat

Quali sono i prossimi passi legislativi?

«La legge di Bilancio e i decreti delegati. A dicembre verrà licenziata la legge di bilancio per il 2024. Lì il Governo deciderà se e quante risorse economiche dedicare alla riforma che al momento, come ho detto, non ne è dotata. Poi la promulgazione dei Decreti Delegati entro gennaio 2024».

Non possiamo affrontare qui i contenuti del testo della riforma, alcuni sono peraltro anche molto tecnici. In sintesi che cosa cambierà nell’assistenza agli anziani non autosufficienti?

«I benefici non si toccano subito con mano nei primi anni di applicazione. Siamo di fronte a una legge quadro che dovrebbe cercare di tenere insieme una prospettiva di lungo periodo insieme a servizi migliori nel breve. Però ci sono alcune “rivoluzioni” che sono quasi immediate e mi concentrerei su queste. Primo, la semplificazione del percorso. Ne abbiamo fatto esperienza tutti: una peregrinazione dei familiari tra uffici ed enti. Con la riforma si passerà da 6 a 2 valutazioni, una statale e una regionale, collegate tra loro, contrariamente a quanto avviene oggi. Saranno condotte con strumenti nuovi che permettono di comprendere molto meglio le condizioni dell’anziano. Secondo, la costruzione di un servizio di domiciliarità che non duri solo 2/3 mesi ma tutti gli anni necessari. E non investa solo su prestazioni infermieristiche, pur importanti, ma su tutte le prestazioni di aiuto all’anziano nella vita quotidiana. Ovviamente non abbiamo la pretesa di sostituirci a familiari e badanti, sarebbe utopico. Ma questa riforma sarà in grado di affiancarli e sostenerli. Terzo, l’assegnazione di un importo più alto a fronte di una spesa per una badante regolarmente assunta. Quarto, un importo maggiore dell’indennità di accompagnamento, oggi per tutti fissata a 527 euro, per chi ne avrà più bisogno. Ecco, queste quattro novità si potranno toccare con mano subito, entro 12/24 mesi. Più lunghi invece i tempi per la riforma della residenzialità sulla quale siamo indietro. È tecnicamente molto complicata. E poi c’è tutto il lavoro per la costruzione di un profilo nazionale per le badanti».

Cristiano Gori, coordinatore del Patto per un nuovo welfare sulla Non Autosufficienza

È azzardato affermare che la riforma introduce un “welfare autonomo” per gli anziani non autosufficienti? Un vero e proprio sistema nazionale…

«No, assolutamente, è corretto. Rispetto ad altri Paesi europei, in Italia è irrealistico un cambiamento istituzionale dove sanità e sociale diventino un unicum. Quindi la strada è quella di tenere le titolarità separate ma di realizzare in tutti i passaggi la massima unitarietà possibile. E aggiungo che sapere che esiste l’assistenza agli anziani significa attribuirle un riconoscimento politico e culturale. Perché ancora oggi l’approccio alla non autosufficienza è davvero molto debole. La nascita di Sna, Sistema Nazionale Assistenza Anziani, verrà colta e capita subito da tutta la popolazione».

Quale sarà il ruolo di Regioni e Comuni?

«Le rispondo con una anomalia che abbiamo evidenziato subito nell’elaborazione della legge: Regioni e Comuni non sono stati coinvolti. E non va bene. Come Patto abbiamo attivato interazioni con la Conferenza Stato Regioni e con l’Anci ma lo abbiamo fatto come soggetto terzo. Invece l’equilibrio tra i diversi livelli di Governo è un punto centrale di questa riforma. Perché è la prima volta che si tenta una strategia nazionale per il welfare della non autosufficienza in un settore che, lo ripeto, è a trazione locale ed è molto strutturato».

Qual è allora la sfida in questo ambito?

«Nei decreti delegati lo Stato dovrà trovare il giusto equilibrio tra eccesso di indicazioni e vaghezza di principi. Dovrà individuare pochi punti chiave e pensare percorsi di sviluppo differenti tra le diverse Regioni in rapporto al diverso livello di sviluppo del settore. A chi obietta “Come si può attuare una politica nazionale in contesti così diversi?”, rispondo che due delle più grandi riforme europee sono state realizzate in Paesi più eterogenei del nostro, Spagna e Germania. In Italia frammentazione e modelli di intervento non pensati sono presenti ovunque. Con forme e intensità differenti. Si tratterà di graduare l’intervento statale».

La riforma entra tuttavia in conflitto con un’altra indicazione presente nel Pnrr. L’Unione Europea assegnerà 2,72 miliardi per contribuire ad assistere a casa con l’Adi, Assistenza domiciliare integrata, da qui al 2026, altri 806.970 anziani non autosufficienti…

«Va precisato che in Italia non esiste una domiciliarità per gli anziani non autosufficienti non p»erché non siamo in grado di organizzarla ma perché il disegno istituzionale normativo proprio non la prevede. I quasi 3 miliardi per l’Adi sono investimenti “chiusi” durante il governo Conte, prima che si pensasse alla riforma. La domiciliarità prevalente, quella di Adi, è composta da poche prestazioni, mono professionali, prevalentemente infermieristiche, per periodi di 2/3 mesi. È molto utile ma non è certo l’assistenza di lungo periodo e multiprofessionale di cui hanno bisogno gli anziani non autosufficienti. Eppure in questo momento tutte le risorse finanziarie del Pnrr sono dedicate a diffondere ulteriormente questo modello e anche con vincoli molto stretti. Siamo di fronte a un problema di credibilità. Se lavoro in una Asl, sono portato a credere più al testo di una riforma che non è ancora finanziata oppure ad uno stanziamento che devo assolutamente usare entro il 2026 secondo un modello preciso?»

Ci sono a questo punto margini di manovra?

«Come Patto stiamo chiedendo un riorientamento. Già il fatto che questo Governo abbia detto che il testo del Pnrr non rappresenta le tavole della Legge, ci dà qualche speranza. Ma dobbiamo essere realistici: questi fondi sono già distribuiti tra le Regioni. La nostra proposta è che, a partire dal 2024, una quota percentuale dei fondi del Pnrr venga dedicata alla riforma e che sia progressivamente crescente. Ecco, questo si può fare. È complicato ma è possibile. Come Patto ci stiamo lavorando e continueremo a impegnarci nei prossimi mesi per spingere il governo a stanziare risorse e per contribuire alla stesura dei decreti delegati».