Partiamo dalla fine: in una Unione Europea strutturata come è oggi non ha senso parlare di politica industriale. La tanto spesso citata autonomia strategica Ue è poco meno che utopia, alle condizioni attuali. Le cause fondamentali sono due, anzi tre: struttura confederale, vincolo esterno americano, postura post-storica. Facciamo un passo indietro e chiariamo.
Il 4 dicembre, la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha tenuto una lectio di fronte al Collegio d'Europa di Bruges, tracciando le strategie di politica industriale Ue per il prossimo futuro. Nel proprio intervento la presidente della Commissione ha rilanciato lo European Green Deal, ambizioso programma di transizione energetica da mille miliardi di euro, annunciato alla vigilia dell'imprevisto pandemico e da allora temporaneamente accantonato.
Rispetto al 2020, tuttavia, le condizioni globali risultano evidentemente mutate. In particolare, secondo Von der Leyen, esisterebbe oggi una «corsa alle tecnologie pulite» che coinvolge Usa e Cina e nella quale l'Ue rischia di figurare quale proverbiale vaso di coccio. L'Ira-Inflation Reduction Act, piano Usa da circa 400 miliardi di dollari a sostegno della manifattura nazionale, nei settori ad alta tecnologia, è un chiaro sintomo di tale impulso. Von der Leyen, del resto, afferma di non vedere gli Usa quale rivale ma, anzi, alleato naturale nel contenimento dell'aggressività – finora soltanto economica – della Repubblica popolare. Nelle parole della presidente di Commissione «Europa e Stati Uniti possono costituire una alternativa [al monopolio cinese], fondando un club delle materie prime [...]: una alleanza relativa all'approvvigionamento, la progettazione, la trasformazione».
Il passaggio più rilevante dell'intervento è stato senz'altro la storica apertura agli aiuti di Stato in ambito Ue, dopo oltre trent'anni di serrata lotta ideologica. Prospettiva che non risulta del resto totalmente nuova. Ci aveva già pensato nel 2019 il documento congiunto franco-tedesco denominato «A Franco-German Manifesto for a European industrial policy fit for the 21st Century» a delineare una prima forte revisione delle politiche Ue in materia, al fine di dotare le imprese europee di maggiore potenza di fuoco, adattandole a un tipo di competizione, quella globale, che non ha mai davvero preso in considerazione la via europea al capitalismo, ossia la pura primazia economica (libera competizione, mano invisibile, eccetera) sulla politica.
Una scelta inevitabile
Scelta sicuramente sofferta, questa, in ambito Ue, ma inevitabile. Basti pensare che – nel 2019 – delle prime venti aziende a livello mondiale, solo cinque erano europee. Oggi, a tre anni dalla pubblicazione del documento, le cose vanno pure peggio: la Volkswagen è prima per profitti, nel vecchio continente, ma niente più che numero 25 nella relativa classifica globale Forbes.
.Una scelta logica quella annunciata a Bruges, dunque, tanto a lungo differita quanto destinata a non produrre da sola effetti sostanziali. Gli aiuti di Stato – a cui i Paesi europei hanno masochisticamente rinunciato per tre decadi (unici al mondo) – potrebbero sì migliorare la situazione. Ma il problema sta a monte. Sembra infatti esistere un sostanziale fraintendimento da parte europea riguardo ai tratti fondamentali di una efficace politica industriale. Su quali siano, cioè, i fattori determinanti nel guidare l'applicazione di una programmazione industriale orientata all'interesse strategico.
E qui torniamo alle tre criticità.
Innanzitutto, non si potrà parlare di un reale e omogeneo interesse industriale europeo fino a che non esisterà effettivamente un'Europa. Un'entità, cioè, federale, sullo stampo di quella immaginata, da Ventotene in poi, da figure come Altiero Spinelli. È vero che alcuni centri industriali urbani e regionali sono ormai perfettamente integrati fra loro a livello transnazionale, ma se guardiamo ai macro-blocchi degli Stati nazione, gli interessi strategici italiani, francesi e tedeschi (soltanto per dire dei tre maggiori) divergono ancora sostanzialmente. Circostanza confermata – fra l'altro – dall'invocazione con cui il ministro italiano per gli Affari europei, Fitto, ha salutato proprio il passaggio di Von der Leyen sugli aiuti di Stato: «La risposta Ue non favorisca Francia e Germania».
Il vincolo dell'America
Secondo: il vincolo statunitense. Gli interessi strategici europei – in ambito tanto industriale, quanto militare – non sono sovrapponibili a quelli americani. Lo mostra con fotografica evidenza la attuale guerra in Ucraina, che sta generando effetti negativi in particolare sui sistemi politici, economici e sociali dei Paesi europei tutti, mentre per gli Stati Uniti vale esattamente l'opposto.
Lo stesso Ira risponde – come è naturale che sia – a logiche interne statunitensi: legittimamente egoistiche, difficilmente conciliabili con quelle europee. Ma è soprattutto il particolare rapporto fra capacità industriale e competizione globale l'aspetto che più rileva, se si vuole provare a comprendere i limiti dello sviluppo industriale europeo degli ultimi decenni; il fatto che, come sottolineato da Aresu, l'Europa sia divenuta “colonia tecnologica” all'interno di un confronto geopolitico ramificato e complesso, a livello globale.
Il punto è che il principale vettore dello sviluppo tecnico di un territorio è di fatto il suo rapporto con il mondo di fuori, la sua postura geopolitica, la sua maggiore o minore ambizione a livello globale. Un approccio e una postura che per Usa e Cina sono marcatamente votati alla competizione e macchiati (marchiati) dalla politica, mentre per l'Europa, negli ultimi trent'anni, sono stati invece rigorosamente improntati al “business”, agli affari. In una parola: all'economicismo.
La connessione tra imprese e apparato bellico
Ma una politica industriale efficacemente orientata all'interesse strategico – qual è quella abbozzata nelle premesse del proprio intervento da Von der Leyen – dovrà avere una forte connessione fra imprese e apparato bellico, fra ricerca e sviluppo in ambito prima militare e poi civile. In sintesi: fra pubblico e privato. Come è noto – e per citare due esempi estremamente prossimi alla nostra quotidianità – non si sarebbero avuti internet né il gps senza la Guerra Fredda. La stessa Silicon Valley nacque al principio come centro di ricerca e sviluppo della Marina militare statunitense, che condusse al diffuso distretto tecnologico che conosciamo oggi.
Così Microsoft, Facebook e Tesla non sono semplicemente aziende che fanno affari, ma rappresentano realtà pienamente strutturali alle istituzioni Usa e alla loro ramificata influenza globale, come certifica il loro decisivo ruolo nella protezione del territorio e dell'esercito ucraino dal febbraio scorso.
Il peso del "libero mercato"
Alcuni osservatori lamentano la sostanziale assenza di una politica industriale italiana (a maggior ragione europea) negli ultimi decenni. Le ragioni non sono difficili da individuare. Chiunque abbia minimamente approfondito la storia dell'integrazione europea dalla prima presidenza Delors (1985) a oggi sa infatti che i vincoli posti all'interazione fra Stato e Mercato sono stati molteplici e progressivamente stringenti. L'idea che i mercati dovessero essere lasciati pienamente liberi di agire e che la aperta competizione costituisse un meccanismo in sé virtuoso, capace di regolare da solo – e per intero – la corretta allocazione delle risorse, ha reso di fatto impossibile reggere il confronto con sistemi di capitalismo “politico” quali quelli americano e cinese.
Essendo economia e finanza divenute materie di intervento non più esclusivo dei singoli Stati membri Ue, ogni approccio non ortodosso da parte di questi ultimi nei confronti della politica industriale nazionale è stato sistematicamente disincentivato e represso, specie in un Paese ad alto tasso di debito pubblico come l'Italia. Senza che, d'altra parte, le istituzioni europee riuscissero a sostituirne l'azione singola in maniera complessiva e capace. Per le medesime ragioni di cui sopra: per la radicale diffidenza Ue verso ogni “non necessaria” interferenza pubblica nel libero mercato.
Non si è trattato di dolo, malafede o impreparazione, ma di un preciso calcolo, di una scelta cosciente che oggi, a trent'anni di distanza, si ritiene infine di dover correggere.
Un cambio di paradigma
I pacchetti da centinaia di miliardi a volta su cui l'Ue sta ormai strutturalmente investendo resteranno lettera morta se a livello europeo non si opta per un cambio di paradigma innanzitutto culturale.
Per conferire efficacia alla politica industriale dell'Unione e dei suoi membri serve innanzitutto una sua razionalizzazione.
Posto che le opzioni di una politica estera e un esercito comune europei sono – nella realtà confederale e con una Nato di nuovo “pigliatutto” – poco meno che utopia, occorrerebbe applicare la logica (tipica integrativa) dello spill-over allo sviluppo tecnologico civile e militare dei Paesi europei per il prossimo decennio. In particolare, quello che potremmo definire “euro-quad”: Italia, Francia, Germania, Spagna. I campi richiamati da Von der Leyen (semiconduttori, intelligenza artificiale, quantum computing, aerospazio) vanno benissimo. Il modello può essere quello (al tempo abortito) dell'Euratom: il piano per una deterrenza nucleare comune fra Italia, Germania e Francia, affossato anche (ma non solo) dalla tendenza tipica francese a voler fare da sé.
L'importante è costringere il cuore dell'Unione (Europa a due velocità) a cooperare, raggiungendo un punto in cui non farlo diventi molto più costoso che affrontare i sacrifici necessari a procedere ancora in avanti.
Adattare un simile ragionamento al campo dell'industria strategica è evidentemente complesso, ma non per questo impossibile. O si decide che, fra crisi del 2008, pandemia e guerra in Ucraina, si è entrati in una fase inedita, che richiede un approccio nuovo e differente rispetto al passato, oppure si sceglie di abdicare per i prossimi decenni a qualunque tipo di rilevanza politica internazionale. Tertium non datur. Un simile approccio permetterebbe, fra l'altro, di controllare l'annunciato riarmo tedesco, fonte di logica apprensione – visti i precedenti – per tutte le cancellerie, europee e non.
Proprio questo impulso negativo potrebbe rivelarsi maggiormente efficace di qualunque slancio ideale positivo. Così come è vero che il più tangibile risultato della storia integrativa europea, l'euro, nacque da un grigio compromesso fra Parigi e Bonn, nelle note trattative 4+2. Con la prima a cercare di acquisire la leva valutaria del marco e la seconda a inseguire l'unificazione del proprio territorio nazionale.
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